Piccole vocazioni del nostro destino privato

«Un giorno di festa» di Matteo Tasca

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Un giorno di festa

«Che cos’è vita eterna se non questo accettare l’istante che viene e l’istante che va? L’ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo. Che cos’è stato finora il tuo errare inquieto?» Così fa dire Cesare Pavese a Calipso in uno dei Dialoghi con Leucò. In questo dialogo fra la ninfa e Odisseo, Pavese pone le basi del suo mito, ovvero l’accettazione rassegnata dello scorrere del tempo e della caducità della vita umana. «Immortale», dice inoltre Calipso all’eroe omerico, «è chi accetta l’istante. Chi non conosce più un domani», poiché «il passato non torna. Nulla regge all’andare del tempo».

Sembra dialogare con questa idea di rassegnazione Matteo Tasca, giovane poeta di Anagni al suo debutto poetico nella collana «Obtorto Collo» di Industria & Letteratura con la raccolta poetica Un giorno di festa, una raccolta che a partire dalla poetica delle piccole cose prova a scardinare l’idea pavesiana di mito e di festa come accelerazione della fine proponendola come momento in cui la fine diventa un nuovo inizio.

Le poesie di «Un giorno di festa»

«Quando le vie creative della storia sono bloccate, rimangono solo i vicoli ciechi del superamento individuale di una vita divenuta insulsa». Questa citazione tratta da Freudismo di V.N. Volosinov la si trova in esergo a una delle tante poesie di Un giorno di festa, una raccolta che tratta dei vicoli ciechi che si frappongono sul nostro cammino una volta che vi sono eventi che mettono in discussione il nostro vissuto.

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La vecchiaia di una nonna, la morte di un vecchio zio, la morte di due coniglietti appena nati, sogni e paesaggi sono ciò che costellano questa raccolta poetica dove l’io lirico raccoglie questi momenti per riflettere non soltanto sul tempo che passa e il destino che si realizza, ma anche su una scrittura che ha il compito di dare la vita e di darle continuità rendendo eterne le immagini del tempo che fu.

Una scrittura universale contro il tempo che scorre

Un giorno di festa alterna momenti di poesia a momenti di riflessione in prosa su temi riguardanti la scrittura. Quelli di Tasca, inoltre, sono eventi e momenti che si susseguono incalzanti e che dal particolare vanno fino all’universale, un po’ come la poetica del Biedermeier resa famosa da poeti di lingua tedesca come Eduard Mörike o del realismo poetico di Gustav Freytag, che da piccoli frammenti della realtà quotidiana arrivano a suscitare riflessioni di portata universale.

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Una riflessione in questo senso la dà lo stesso Tasca nella prosa intitolata Intermezzo, una prosa in cui discute su come la soggettività sia pura forma che nasconde la vera essenza dell’individuo e delle cose e, dunque, è inconciliabile con il concetto di verità:

[…] Se oggi l’individualismo è il valore dominante, rinunciare a parlare di sé può essere forse un atto di gentilezza, un modo per lasciare spazio ai discorsi e agli interessi degli altri – tra i quali rientriamo anche noi, certo, ma come membri di un insieme, non come individui isolati.

«Desoggettivarsi», però, implica per Tasca «assecondare il narcisismo fino alle sue estreme conseguenze, alimentando l’ansia di totalità che a questo si lega». Pertanto, il poeta di Anagni riconosce comunque la necessità della soggettività per poter parlare di altro e per poter far sì di riconoscere l’individuo in un sistema di sofferenza che è universale, di modo che il suo dolore possa essere anche quello di tutti per ricevere la consolazione necessaria ad andare avanti. Partire da se stessi, dunque, per scomparire a poco a poco ed entrare panteisticamente in un disegno del destino comune a tutti.

Il destino privato dell’io

Per parlare di questa grande festa della vita, bisogna parlare in primo luogo del festeggiato, ovvero l’io lirico. La raccolta si apre infatti con un suo ricordo a nove anni relativo alla morte prematura di due coniglietti appena nati, che lo porta a riflettere su ciò che verrà:

Sono morti il giorno dopo.
La loro presenza sulla terra
non è stata altro che una macchia di dolore confuso,
un miracolo inutile,
vorrei dire uno scherzo crudele e insensato
[…]
Non voglio che questo
smetta di sembrare uno scandalo:
avevamo bisogno d’aiuto
e nessuno è venuto a salvarci.

L’io lirico ci mette fin dall’inizio di fronte alla vulnerabilità dell’essere umano di fronte alla morte, alla vergogna che l’individuo prova nel momento in cui si trova solo e confuso in mezzo a tutti, nel momento in cui capisce ad esempio che i morti non tornano dal passato perché «debole memoria debole amore,/niente con te ritorna dal passato che mi parli», ma anche quando comprende che di fronte al pericolo e alla morte non può fare altro che riconoscere la propria «miseria interiore», l’incapacità di dare una risposta al proprio immobilismo.

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Questo senso di vergogna è ciò che l’io prova anche di fronte alla morte della nonna, della quale fino alla fine troverà difficile le ragioni, ma anche comprendere i suoi pensieri e i suoi sentimenti:

La morte di un individuo pone questo muro tra sé e il resto degli uomini che sono vivi e più o meno lontani dalla morte, poiché è impossibile immedesimarsi pienamente nei pensieri di qualcuno che ci sta lasciando. A separare la nostra mente da quella di uno che muore si interpone uno sgomento, la cosa impensabile che suona come mai più.

Questo senso di “mai più” terrorizza l’io al punto che parlare di sé è uno scudo per proteggersi da un senso di morte che in fondo gli appartiene in quanto parte del cosmo. L’io non può sfuggire a questa idea, e pertanto non gli resta altra scelta che accettarla e provare a conviverci cercando soprattutto di entrare nei pensieri e nelle vite altrui per accompagnarle in un altro giorno di festa prima che tutto finisca.

Un altro giorno di festa soltanto

Il momento che più avvicina l’io a queste riflessioni è il suo incontro con un insetto a cui involontariamente spezza un’ala e che suscita nell’io alcune riflessioni su ciò che c’è in comune fra lui e gli altri:

Ho pensato al divario che esiste tra le specie;
poi a quello tra gli individui. Vorrei dire
la tragedia di un mondo che si spegne
nel silenzio, per un puro accidente, senza niente
che brilli, ma temo sia vero
solo per il me di questo momento.

Ho guardato Isa e le ho detto che sta morendo.
Lei si è intenerita e ha cercato di consolarmi.
Quella notte ognuno ha dormito dalla sua parte del letto.

Da questo momento in poi, l’io raggiunge un senso di panteismo con la totalità basato sul dolore e la caducità della vita, su quelle piccole variazioni che portano inesorabilmente alla fine e che va accettata senza se e senza ma: osservare i singoli significa osservare se stessi e osservare la totalità delle cose. Ciò che accade a un piccolo insetto accade alle acacie in lacrime, alla nonna, ai due coniglietti e dunque anche all’io:

Penso ai rapporti che esistono tra il tutto
e le parti, penso che se sommi i fuochi
non trovi il fuoco centrale, ma torni
ai singoli fuochi, identici segnali
di vite irrelate. Come tutto è poco, penso.

Tornando a Cesare Pavese, una delle sue massime preferite è Ripeness is all tratta dal Re Lear shakespeariano. La maturità è tutto, ma allo stesso tempo sta nel tutto, in quella vergogna che proviamo di fronte alla morte e alla fine. La maturità sta, dunque, nell’accettare il fatto che come gli altri non siamo al centro di tutto, che non possiamo avere nessuna prerogativa sul destino, non possiamo cambiarlo. La festa sta nell’accettare di essere nudi di fronte alla vita, e di ballare finché non arriva la fine. Vivere il tutto con accettazione, che è il livello successivo alla rassegnazione, che implica l’attaccamento alla vita nonostante la sua ineluttabilità.

La maturità nella festa della vita

Un giorno di festa (acquista) è un debutto che ci mostra ancora una volta come la poesia non sia più un fatto individuale, bensì collettivo. Le liriche di Matteo Tasca desoggettivizzano l’io per renderlo un fenomeno d’insieme, una parte del tutto che nel tutto trova la sua ragion d’essere e le risposte alla sua vergogna e al suo timore verso la morte. L’io non deve temere la morte, ma deve vivere ogni istante come un ultimo giorno di festa, perché tutti noi ne facciamo parte e tutti noi dobbiamo accoglierla come giusto momento conclusivo della nostra storia.

Chi osserva ignora
che tutto ciò che gli appare più che reale
è un gioco di gloria e disperazione
giocato da altri e da lui ereditato.
Ha una fede, e questa dà forza al suo sguardo,
gli lascia impressioni profonde,
lo fa sentire vivo e insondabile.

Credo a tutto quello che posso,
crederei a qualunque cosa se potessi.
Per un occhio che si chiude
un altro se ne apre.

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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