Nel corso del tempo, la parola “martire” ha subito un certo slittamento semantico: da colui che testimonia la fede incrollabile per Gesù in circostanze difficili a colui che si sacrifica per un ideale fino a designare in senso figurato coloro che sono costretti a patire continue tribolazioni nella vita di tutti i giorni. Se consideriamo quest’ultimo aspetto, possiamo dire che un martire in fondo è anche colui che nella vita di tutti i giorni soffre continui tormenti lambiccandosi il cervello per dare un senso alla propria vita monotona.
Sembra pensare a questo tipo di martirio Cyrus Shams, protagonista di Martire!, libro finalista al National Book Award 2024. Il suo autore è Kaveh Akbar, poeta iraniano-statunitense alla sua prima fatica in prosa che a poco a poco sta raccogliendo il consenso della critica e che nel premio citato si ritrova già a confrontarsi con nomi affermati come Percival Everett, Hisham Matar o Miriam July.
La trama di «Martire!»
Martire! racconta la storia di Koroosh Shams, per tutti Cyrus, un ragazzo iraniano-statunitense dedito all’alcol e ai farmaci, mancato studente di letteratura all’Università di Keady, nell’Indiana, che per guadagnarsi da vivere fa l’attore medico alla facoltà di medicina della stessa università interpretando il ruolo della vittima. Un evento in particolare influenza la vita del protagonista: la morte della madre Roya nel 1988, pochi mesi dopo la sua nascita, su un aereo dell’Iran Air abbattuto da missili americani.
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La morte della madre l’ossessiona talmente tanto al punto da iniziare un progetto letterario sul martirio, su tutti coloro che lui definisce «martiri della terra», «persone morte per altre persone, non per la gloria o per un dio suggestionabile». In questo senso, Cyrus intraprende un dialogo più o meno immaginario con una varietà di personaggi che dovrebbero aiutarlo a trovare una risposta alla madre di tutte le domande: per che cosa si muore?
«Martire!»: scrivere per morire o morire per scrivere?
Seppur con le dovute distinzioni del caso, Martire! ricorda vagamente Brevemente risplendiamo sulla terra, primo romanzo del poeta vietnamita-statunitense Ocean Vuong. Non è un caso che si tiri in ballo questo paragone, poiché i due autori hanno già collaborato assieme per il film di Sara Colangelo recitato nel ruolo di protagonista da Maggie Gyllenhaal Lontano da qui (The Kindergarten Teacher, 2018) scrivendo le poesie recitate da uno dei personaggi, Jimmy, interpretato da Parker Sevak.
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Poste queste premesse, entrambi gli autori attingono al proprio personale vissuto per scrivere il proprio romanzo, seppur ovviamente con dei rimaneggiamenti. Se nel personaggio di Little Dog ritroviamo alcuni aspetti di Ocean Vuong – vietnamita in fuga dopo la Guerra del Vietnam in America, poeta, omosessuale e un rapporto difficile con la propria madre –, nel personaggio di Cyrus troviamo, per esempio, non solo l’aspetto poetico di Kaveh Akbar, ma anche la sua lotta contro la dipendenza dall’alcol e il viaggio negli Stati Uniti all’età di due anni che poi lo ha portato in Indiana, dove vive anche il protagonista.
Little Dog e Cyrus hanno in comune un aspetto fondamentale: sono entrambi lacerati dall’assenza e in cerca di un senso. Fanno sempre esperienza del male e dello smarrimento e attraverso la scrittura cercano di rispondere a una domanda marzulliana: si scrive per morire oppure si muore per scrivere? Utilizziamo la scrittura per vivere dopo la morte sapendo che la nostra esistenza è precaria oppure viviamo fino alla morte per cercare di dare un senso alla precarietà della nostra vita attraverso la scrittura?
L’arte secondo Cyrus e Akbar
Altro punto in comune fra Akbar e Vuong è l’uso del contesto storico che li ha formati culturalmente come appiglio per affrontare le proprie riflessioni. Nel caso di Akbar non solo c’è la guerra fra Iran e Iraq, ma arrivando il romanzo fino al 2017 vi sono anche riferimenti più o meno espliciti all’11 settembre e al primo governo Trump (il 2017 è, infatti, l’anno del famoso Muslim Ban). Quest’ultimi due avvenimenti storici restano molto sullo sfondo, poiché Akbar non è interessato, come nel caso di Vuong, a confrontarsi col razzismo e i pregiudizi, ma partendo dallo stereotipo del martirio di matrice islamica vuole riflettere sul significato di sacrificare la propria vita attraverso l’arte per cercare un senso per la propria vita.
“Forse non credi che Dio voglia che tu sia felice? Dio, tua madre, la poesia, quello che ti pare. Cosa ti rende così speciale da far sì che tutti gli altri se lo meritino tranne te?”
A causa della morte della madre e poi del padre a seguito di un ictus, Cyrus cade in una spirale di alcol, farmaci e sonnambulismo che acuiscono la sua ossessione per la ricerca della felicità e di scopo. Dopotutto, se si muore prematuramente, un motivo per il protagonista dev’esserci, e questo stato di perenne sonnambulismo e assuefazione alcolica e chimica dovrebbe far sì che ciò che sogna, «la finzione», «si trasformerà in realtà». È per questo motivo che si immagina dialoghi immaginari con Lisa Simpson, Donald Trump, il poeta persiano Rumi, i suoi genitori e altri personaggi: perché le storie sono «escrementi del tempo», e nel raccontarle e rimodellarle si riesce a dare una ragione al perché di certe decisioni e certi eventi.
Reinterpretare la propria vita a tutti i costi
In questo senso, Martire! ricorda molto È tutta una finzione, romanzo d’esordio di Daniel Kehlmann, dove Beerholm, il protagonista, sacrifica la propria vita a favore dell’arte e la rilegge a ritroso per provare a darne un senso. Così fa anche Cyrus, che mescolando prosa e poesia e tirando in ballo personaggi come Bobby Sands o Giovanna D’Arco «reinventa faticosamente le cose, come se lavorasse in continuazione e in tempo reale alla forma con cui alla fine avrebbe scritto quella storia».
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Punto di svolta nel romanzo è l’incontro fra Cyrus e Orkideh, artista iraniana omosessuale malata terminale di cancro che a Brooklyn ha realizzato un’installazione à la Marina Abrahamovic dal nome MORTE-PARLA, dove Cyrus le confessa il suo progetto di studio del martirio e ossessione per la ricerca di senso della propria esistenza:
“Ehm, non volevo dire ‘sperperare'”, si corresse rapidamente. “O ‘buona’. Voglio dire, la morte è morte. È tutto uno spreco e non c’è niente di buono. Anima immortale malata di desiderio e legata a un animale mortale, insomma, quel che è. Ma lei non sta sprecando la sua morte, sa? Lei sta facendo questa cosa, e dunque la sua morte così ha veramente senso”.
In questa sua hybris, come d’altronde la definisce, Cyrus ha l’intento di creare una «storia sul tempo, su come il tempo rada al suolo ogni cosa». Il protagonista, dunque, pare abbia trovato lo scopo del suo lavoro: salvare la sua vita e quella degli altri spazzata o che rischia di essere spazzata via dal tempo che passa, e pertanto rendere il martirio qualcosa di necessario affinché gli altri possano esistere attraverso dei ricordi e delle storie che li contengano e che restino nel tempo.
Una corsa contro il tempo
In uno dei dialoghi allucinanti che si immagina, ovvero quello fra il fratello immaginario Beethoven Shams e il cestista Kareem Abdul-Jabbar, Cyrus trova un’altra soluzione al suo problema: si crea una storia «per rendere tollerabile vivere. Per far sì che queste vite di merda ci sembrino degne della fatica che comportano». Uno dei motivi, difatti, che Orkideh fa arte è «perché l’arte resta […] È ciò che il tempo non deteriora». Come per Orkideh, anche per Cyrus «l’abisso ha regalato l’arte»: fare esperienza del vuoto e del silenzio lasciato da chi muore, soprattutto se un nostro caro, ci porta a realizzare l’arte e la letteratura. Si scrive e si realizza un’opera d’arte per spiegare come mai accade ciò che accade, per colmare un vuoto, un’assenza.
Cyrus si rende conto che non potrà riportare in vita sua madre e altre persone morte come lei. Nessuno gli spiegherà mai perché proprio lei è dovuta morire, ma si rende anche conto che è lui l’unico che plasmando la sua vita e quella della sua famiglia al servizio dell’arte può dargli un senso e un significato. Cyrus, quindi, scrive per battere il tempo, e contemporaneamente perché qualcuno prima di lui si è sacrificato per permettergli di vivere e di raccontare le loro storie di modo che, una volta consegnate all’arte, nessuno le possa rimuovere per sempre.
Un martire della terra al servizio dell’arte
Attraverso la storia di Cyrus, quindi, Martire! (acquista) ci racconta come quella che si intraprende con l’arte e la letteratura sia una sfida contro ciò che ci sottrae alla vita. Un motivo per cui si scrive e si fa arte è per rendere significativi il sacrificio e la morte: si muore e ci si sacrifica per permettere alla vita di andare avanti, per permettere a chi verrà dopo di noi di creare altra vita e di dare significato a ciò che è stato e mai tornerà. Scrivere ci fa capire che per quanto a lungo viviamo, la nostra vita ha senso, e l’arte ha il potere per sublimarla per sottrarla all’abisso del tempo.
Questa idea per il libro, per la sua stessa morte – con quella visita al museo aveva afferrato qualcosa della sua forma, del perché contasse. Era un’idea precisa, coraggiosa sul lasciare la vita per qualcosa di più grande del semplice vivere. Diventare un martire della terra. Aveva senso, e poi all’improvviso non ce l’aveva più. Come acqua bollente versata in una tazza e poi sulla sua testa. Si sentiva infiammato, confuso, inaspettatamente vivo.
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