Il Brasile nelle dune di sabbia della memoria

«Sono ancora qui» di Marcelo Rubens Paiva

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Sono ancora qui

In una sua intervista di quasi dieci anni fa rilasciata da «La Repubblica», il cantautore brasiliano Caetano Veloso affermò che il Brasile un tempo era considerato «un paese triste dove si scrivevano canzoni tristissime da ballare nel carnevale». Veloso aggiunse, inoltre, che i brasiliani avevano successivamente imparato «che si poteva anche essere felici», tuttavia «la rappresentazione spensierata e festosa del brasiliano nell’immaginario mondiale è, in gran parte, ingannevole».

Pochi ricordano, infatti, che dal 1964 al 1985 in Brasile si è instaurato un violento regime militare chiamato anche Regime dei Gorillas, che ha costretto politici, scrittori e musicisti come lo stesso Veloso il più delle volte ad andare in esilio altrove. Tanti, però, sono morti a causa di questo regime, alle volte il loro corpo non è stato più ritrovato come nel caso dei desaparecidos argentini, e ancora aspettano giustizia.

Questo è il caso di Rubens Beyrodt Paiva, ex deputato laburista del PTB e oppositore del regime militare, padre dello scrittore Marcelo Rubens Paiva. Quest’ultimo racconta la storia di quegli anni e le vicende attorno a suo padre nel memoir del 2015 Sono ancora qui, trasposto al cinema da Walter Salles e presentato l’anno scorso alla Biennale di Venezia con vittoria del premio per la migliore sceneggiatura – ma in sala in Italia a fine gennaio –, che La nuova frontiera porta quest’anno per la prima volta nelle librerie italiane.

La trama di «Sono ancora qui»

Sono ancora qui inizia fra il 2008 e il 2014. Il narratore – lo stesso Marcelo Rubens Paiva – è alle prese con la madre Eunice, affetta da Alzheimer, di cui riesce a diventare tutore dopo un incontro con il giudice in tribunale. Nel 2014 nasce il primo figlio dell’autore, e ciò lo porta a riflettere sul rapporto fra scrittura e memoria, in particolare la memoria del passato, non solo del Brasile, ma anche della propria famiglia.

Perno di questa memoria familiare è Eunice. La donna, infatti, non soltanto è stata un avvocato di successo, impegnata anche per i diritti civili degli indigeni e consulente per la Banca Mondiale e per l’ONU, ma è stata una madre coraggio che ha portato avanti una battaglia molto più grande e importante: quella per la verità su suo marito Rubens Beyrodt Paiva. Tra il 20 e il 22 gennaio 1971, quest’ultimo è stato arrestato dai militari, torturato, ucciso e il suo cadavere – che non è mai stato trovato – fatto sparire, anche se i militari hanno fatto passare la sua scomparsa per fuga volontaria coadiuvata da terroristi di sinistra.

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Molti anni dopo, dunque, la malattia di Eunice porta lo scrittore a ritornare sulla storia di suo padre, ma soprattutto sulla storia di un paese che ancora deve fare i conti con le proprie ferite, che come dimostrerà l’ascesa al potere di Jair Bolsonaro quattro anni dopo la pubblicazione del libro si dimostrano ancora non essere del tutto sanate.

Il Brasile e la famiglia Paiva fra memoria e presente

Il memoir di Marcelo Rubens Paiva non è il tipico memoir focalizzato sul rapporto genitore-figlio con quest’ultimo che fa da semplice raccoglitore di memorie spesso condite con sensi di colpa e nostalgia. L’autore, infatti, usa la malattia della madre per raccontare un paese le cui ferite sono ancora oggi presenti, i cui effetti della Storia sono ancora evidenti e che combatte con una giustizia che è lungi dall’attuarsi per quelle famiglie che sono rimaste vittime della dittatura dei Gorillas.

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Se l’adattamento cinematografico di Salles segue il racconto lineare dal passato al presente incentrato sulla figura di Eunice (interpretate da Fernanda Torres e, verso la fine, da Fernanda Montenegro) come mamma coraggio che si reinventa avvocato per cercare la verità su suo marito e che alla fine, nonostante la malattia, rivive gli avvenimenti dolorosi del passato, il libro di Marcelo Rubens Paiva alterna passato e presente e ciò che racconta lo coinvolge in prima persona. Come scrittore, infatti, si sente in dovere di riflettere su questi avvenimenti, di comprendere come la sofferenza del presente li plasmi a suo modo, ma anche di far capire ai lettori che passato e presente sono strettamente intrecciati, anche con l’avvicinarsi della morte:

La memoria non è la capacità di organizzare e classificare ricordi in archivi. Non esiste nessun archivio. L’accumularsi del passato sul passato prosegue fino alla nostra morte, ricordo su ricordo, attraverso momenti confusi, distorti, bloccati, ricorrenti o nascosti, o repressi, o blindati per istinto di sopravvivenza. Un falò su una collina aiuterebbe. Ma con il tempo si estingue. E non siamo più in grado di navigare verso casa.

La magia sconosciuta e restaurativa della memoria

L’autore pone molto l’accento sul fatto che Eunice abbia l’Alzheimer. Quest’ultima è una malattia per la quale i ricordi si mescolano gli uni accanto agli altri, i ricordi più vecchi con quelli più recenti. Così facendo, Rubens Paiva può riportare in vita storie «con nuovi dettagli e riferimenti», poiché rivede la storia della propria famiglia ogni volta con occhi nuovi aggiungendo cose che prima sono rimaste nascoste a causa di meccanismi di difesa attivati dal dolore.

Esempio di ciò è, appunto, l’arresto e conseguente morte del padre dell’autore, all’epoca dei fatti un ragazzino che per molti anni ha vissuto con l’idea che suo padre fosse un sovversivo e un terrorista, ma che crescendo, e anche con la scusa delle lotte prima e della malattia della madre poi, ha scoperto essere in realtà vittima di un regime che ha lasciato ferite non indifferenti sulle sue vittime:

La memoria non è solo una pietra con dei geroglifici incisi sopra, il racconto di una storia. La memoria assomiglia alle dune di sabbia, granelli che si muovono, si spostano da una parte all’altra, assumono forme diverse, trasportati dal vento. Un fatto di oggi può essere riletto in un altro modo domani. La memoria è viva. Un dettaglio del vissuto può essere ricordato anni dopo, assumere una rilevanza che prima non aveva, e lasciare in secondo piano ciò che in un primo momento era più rappresentativo. Pensiamo oggi con l’aiuto di una piccola parte del nostro passato.

Scrivere per Marcelo Rubens Paiva diventa una lotta corpo a corpo con una memoria che non muore mai, così come non arriva mai la giustizia per suo padre, considerato che il caso dei cinque militari coinvolti nel suo omicidio non è stato ancora sottoposto alla Corte Suprema. Di conseguenza, laddove falliscono i tribunali entra in gioco la memoria, che talvolta con i suoi meccanismi di riscrittura ristabilisce la verità nell’ingiustizia. Ricordare il padre, la madre e il Brasile del tempo è pertanto il modo per l’autore di fare giustizia a chi ha perso ingiustamente la vita, ma anche per ridare dignità a chi ha combattuto per i propri ideali.

Riscoprire un padre e un paese ferito

Un primo passo per Marcelo per ricostruire la verità su suo padre si compi ai tempi dell’università. L’autore si laurea discutendo una tesi sulla lotta armata, lavoro realizzato per conoscere la verità su suo padre, che durante la sua gioventù è stato bollato come terrorista e il cui arresto ha poi portato il nome della sua famiglia a essere cancellato ed evitato da tutto il Brasile:

Chi era mio padre? Perché fu torturato con una tale violenza? Sono stati decenni di mistero. Cosa accadde, come? Col tempo, con la fine della censura, la stampa iniziò a pubblicare storie e testimonianze.

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Un altro passo importante per il narratore è il 1996, quando arriva il certificato di morte di Rubens Beyrodt Paiva, che stabilisce come quest’ultimo, «uno degli uomini più allegri e gioviali che Callado abbia mai conosciuto moriva per decreto grazie alla Legge degli Scomparsi, venticinque anni dopo essere morto per tortura». Da questo momento in poi, l’autore riesce a far luce sulla figura del padre, che da terrorista in realtà si rivela essere un idealista tornato dall’esilio per un Brasile migliore, ma poi ucciso per mano dei militari:

Ma come biasimare chi in quei giorni, per quanto stesse attento, vedeva il mondo crollargli addosso, la repressione spuntare dalle fogne, dai tetti, infestare come una piaga che sparge la peste con la sua saliva? I militanti erano giovani. Idealisti. Avevano rinunciato al lavoro e alla famiglia per un ideale romantico. Volevano fare qualcosa per la libertà. Ed erano tra i pochi a possedere il coraggio di opporsi al regime vergognoso e idiota dei gorilla. Come biasimarli?

Un paese repressivo come era il Brasile ai tempi ha infangato la memoria di persone come il padre dell’autore perpetuando la tortura usata su quest’ultimo anche nella sua famiglia, in particolare Eunice, che per osmosi vive il senso di colpa per non aver costretto il marito a restare in esilio e che, corrosa dalla mancanza di verità, lo incolpa per aver messo in difficoltà la sua famiglia.

Testimone di libertà di padre in madre…

Eunice, però, non eredita soltanto la tortura dal marito, ma anche la stessa volontà di lottare per la giustizia e la libertà. Da casalinga, infatti, la donna studia legge e diventa avvocato, occupandosi soprattutto dei diritti degli indios, e nonostante il lutto ci si trova di fronte a una donna che vuole mantenere una parvenza di stabilità non solo per sé, ma anche per i suoi figli e tutto il Brasile con la speranza di un ritorno alla democrazia che possa mettere in atto la tanto agognata giustizia.

«La vendetta più efficace», osserva quindi l’autore, «era combattere per la democrazia e aspettare che la Giustizia all’interno di una nuova democrazia facesse il suo corso». Nonostante, però, il riconoscimento della morte di Rubens Beyrodt Paiva e le continue lotte per la giustizia, non solo l’autore riconosce che non sono ancora arrivati processi contro chi ha torturato il padre, ma la sua famiglia continua a subire la tortura, questa volta più tragica di quella subita dal padre: quello di restare senza memoria del passato.

…e in figlio

La malattia di Eunice non solo rischia di cancellare lei, ma anche il ricordo delle sofferenze patite dalle vittime del regime dei Gorillas, negando pertanto non solo una giustizia che non arriva mai, ma correndo il rischio che questi tempi bui possano ritornare di nuovo.

Non era mamma che mi inveiva contro, che mi urlava addosso. Era l’assenza di lei nel suo stesso cervello. Era l’assenza di lei nel suo corpo. Era il suo spegnersi che agiva brutalmente nei gesti e nelle parole.

Il testimone di ricerca della giustizia, dunque, passa di madre in figlio, con Marcelo che si assurge a custode di sua madre in quanto «mi ha formato e ha fatto riflettere il Brasile intero», una donna da difendere anche nel momento in cui la malattia arriva al quarto stadio, quello in cui tutto è cancellato per sempre, in quanto depositaria di una lotta per la verità che rischia di scomparire con la sua morte. Solo standole accanto e raccogliendo i suoi pochi ricordi Marcelo può ancora dire «sono ancora qui»: quando tutto sparisce, quando tutti muoiono, tramandare la memoria fa ancora esistere chi ha lottato per la verità e chi si è sacrificato per un avvenire migliore.

Essere ancora qui contro l’oblio

«Eu sou a mosca/Que pousou em sua sopa/Eu sou a mosca/Que pintou prá lhe abusar». Così cantava il cantautore brasiliano Raul Seixas: «sono la mosca che si posa sulla tua zuppa, sono la mosca che è atterrata per disturbarti». Si potrebbe riassumere così il senso di Sono ancora qui (acquista) di Marcelo Rubens Paiva. Come la mosca di Seixas, così i ricordi di Rubens Paiva sono la mosca che deve continuare a fare rumore nella nostra memoria individuale e collettiva, che deve continuare a innervosire, a suscitare una reazione, affinché non si sia realizzato lo scopo finale: quello di dare giustizia a chi ha perso la vita per combattere per la libertà, quello di continuare a ricordare per difendere la democrazia e la verità.

Il passato si conserva da solo. Ci segue per tutta la vita. Il nostro cervello è progettato per immagazzinare il passato e riportarlo alla luce quando ne abbiamo bisogno per chiarire una situazione presente. Se non fosse per questo trucco del cervello, crederemmo che il passato sia ancora presente. Impazziremmo. C’è una valvola che registra l’anno in cui le cose sono successe. Una valvola che, quando sogniamo, rimane aperta. Ma quando il presente non ha senso? Quando cessa di esistere, diventa un uragano di immagini, un vento che ci impedisce di vedere chiaramente, viene sostituito dalla memoria? No, poiché non ne abbiamo bisogno, poiché non ci sono domande da chiarire nel presente, anche la memoria svanisce.

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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