Negli ultimi anni lettori, critici e editori italiani hanno maturato un crescente interesse verso gli autori esordienti. Lo dimostra, infatti, il grande successo che stanno avendo gli autori segnalati, finalisti o vincitori delle ultime edizioni del Premio Italo Calvino.
Fra questi, un esordio molto interessante è stato quello di Stefano Etzi con Tante piccole cose (Dalia Edizioni, 2020), arrivato in finale al Calvino nel 2019, e presentato dalla giuria del premio come un’opera «capace di uccidere qualsiasi retorica, di ridicolizzare i luoghi comuni […], di denunciare la pochezza umana e di scorgere il lato grottesco di simile pochezza».
La trama di «Tante piccole cose»
Tante piccole cose narra la storia di Daniele Masala, trentacinquenne cagliaritano di professione spedizioniere e sposato con Anna Maria. L’uomo ci viene presentato fin da subito come grigio, insignificante e anonimo, ma nonostante tutto sembra condurre una vita normale, fin quando, però, uccide la moglie e i suoceri a seguito di una lite familiare.
Tutto ci viene raccontato da diversi punti di vista: da un lato quello dei conoscenti delle vittime e dell’assassino; dall’altro quello dello stesso Masala, che si mette a nudo durante la sua permanenza in carcere, e che ci racconta come il suo gesto sia stato frutto dell’accumularsi di anni di umiliazioni, sottomissione e solitudine: «la somma di tante piccole cose».
«Tante piccole cose»: l’inferno sono gli altri
Tante piccole cose racconta la tragedia familiare (s’intende, inventata) di Masala, trattandola come fosse un caso di cronaca realmente esistito. L’inserimento di articoli di giornale e pagine di forum online, inventati di sana pianta dall’autore, e l’alternarsi dei punti di vista servono a rendere difficile al lettore il compito di giudicare quanto successo, e al contempo a mettere in risalto la personalità del protagonista.
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Da tener presente, inoltre, che il romanzo inizia quasi dalla fine, con Daniele in carcere che pondera l’idea del suicidio, e che a poco a poco ricostruisce il caso d’omicidio. Questo perché per l’autore non è tanto importante raccontare come si evolve la storia, ma il perché della realizzazione dell’omicidio.
Importante in questo senso è l’esergo tratto da Il bombarolo di Fabrizio De André, dall’album del 1973 Storia di un impiegato:
io vengo a restituirti
un po’ del tuo terrore
del tuo disordine
del tuo rumore.
Così pensava forte
un trentenne disperato
se non del tutto giusto
quasi niente sbagliato.
Quella di Daniele, dunque, è la storia di un emarginato, di un escluso dalla famiglia e dalla società caduto nel Male non per una sua predisposizione, ma perché le circostanze lo hanno portato ad accumulare odio e disperazione, avendolo privato di qualsiasi opportunità e dell’amore.
Daniele Masala secondo gli altri
Ritornando al Bombarolo, i primi versi della canzone sembrano racchiudere l’atteggiamento della gente nei confronti del protagonista:
Chi va dicendo in giro
che odio il mio lavoro
non sa con quanto amore
mi dedico al tritolo.
È quasi indipendente.
Ancora poche ore
poi gli darò la voce
il detonatore
I primi quattro versi sembrano adatti a raccontare la percezione che gli altri hanno del protagonista: incapaci di cogliere la vera natura dell’uomo, che nella sua vita ha accumulato dolore e umiliazione, detonata come una bomba nel momento dell’uccisione della sua famiglia.
I punti di vista che si alternano a quello di Daniele sono quelli di sua sorella, del prete, del pizzaiolo, degli ex compagni di scuola e dei vicini di casa. Tutti descrivono il protagonista come grigio, silenzioso, e sfuggente. «Indefinibile, sfuggente, ambiguo», afferma Don Flavio, «ma non in senso cattivo, quello no, mi è sembrato da subito un bravo ragazzo. Tuttavia, non riuscivo a inquadrarlo».
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A prevalere nelle dichiarazioni non solo è l’incapacità di giudicare (nonostante la vicina di casa affermi che «forse, conoscendo meglio le cose, il giudizio potrebbe essere un po’ diverso», la figura di Daniele resta comunque imprendibile), ma anche una sottomissione della figura del protagonista che continua nelle parole di chi commenta la sua vita e il suo omicidio.
Sottolineando il fatto di essere un «soggetto sfigato», la sua «noia e grigiore» e il suo «poco affetto, nessun entusiasmo», si continua, infatti, sia a mostrare indifferenza verso Daniele che a infliggergli dolore perpetrando un senso di solitudine che ha poi portato il protagonista a diventare un assassino.
Daniele secondo Daniele: indifferenza e umiliazione
Il senso di solitudine di Daniele, però, non solo è causato da quello che la gente ha sempre pensato di lui o da come lo ha trattato – spesso prendendolo in giro o ingannandolo, come faceva Enrico con le chat in cui si spacciava per Gaia –, ma anche dalla famiglia stessa: da un lato quella originaria, che da piccolo l’ha strappato da Portoscuso per portarlo a Sinnai, privandolo di ogni legame con i vecchi amici; dall’altro quella che ha costituito con Anna Maria e i suoceri, verso cui aveva alte aspettative, poi tutte disattese.
La famiglia, che in teoria dovrebbe essere un luogo di protezione e calore, si dimostra per Daniele un vero inferno. Ogni azione, ogni gesto commesso dalla moglie e dai suoceri, dal privarlo di vedere le partite su Sky fino a sfruttarlo nel lavoro al terreno di famiglia, ha trascinato il protagonista verso un vortice di dolore e rabbia che, parafrasando la canzone di De André, «ha dato voce al detonatore»:
Io non mi voglio giustificare, non sono nella posizione di farlo, ma credo che ciò che ho fatto sia la somma di tante piccole cose. […] Tante piccole cose, infilate a forza dentro un recipiente troppo piccolo, chiudendo ogni sfiato. E sono scoppiato.
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Con la sua confessione, Daniele non vuole chiedere perdono e nemmeno giustificare che quanto abbia commesso sia giusto: vuole soltanto raccontare la sua versione, ovvero com’è veramente arrivato a sterminare la sua famiglia. Il protagonista ha visto crollare i propri sogni, le proprie ambizioni, e sommato a una famiglia che si è rivelata essere un’estensione della sua prigione di dolore e solitudine che ha vissuto fin da ragazzo, ha deciso di porre fine alla sua prigionia, accettando l’inevitabile:
Se fossi stato una persona diversa, non sarei arrivato a quel punto. Se avessi avuto coraggio, non mi sarei imbarcato nella storia che mi ha rovinato la vita, non mi sarei sposato e non avrei sopportato ogni giorno successivo al matrimonio, convinto che le cose sarebbero cambiate prima o poi. Invece non cambiava mai niente, se non in peggio. […] Più io ero buono, più loro erano cattivi. Più io dicevo sì, più loro mi caricavano di cose da fare. Non ero più una persona, ero il loro schiavo.
Una somma di «tante piccole cose»
Tante piccole cose (acquista) non è l’assoluzione di un assassino, non è la giustificazione del Male. Il romanzo di Etzi in maniera onesta e con la rigorosità di un cronista riesce a rappresentare da un lato la difficoltà di spiegare il Male, ma allo stesso tempo a farci capire che quest’ultimo è spesso inevitabile, specie quando le nostre speranze risultano vane, le nostre promesse false, ma soprattutto quando la famiglia o gli affetti in generale in realtà non fanno altro che aumentare l’umiliazione e la solitudine quotidiana a cui si è sottoposti.
Non ne vale la pena, mi dicevo, volevo vivere in pace. Le preoccupazioni, i problemi, sono tali solo se gli diamo importanza. Se invece ce ne freghiamo, allora non esistono. In questo modo cercavo di ragionare, ecco, e credevo anche di riuscirci. Evidentemente mi sbagliavo. Con mia moglie, con i miei suoceri, non era facile per niente farsi scivolare tutto addosso. Io ce l’ho fatta fino al momento in cui li ho ammazzati. Sarebbe stato meglio ribellarmi un po’alla volta, invece di tenere dentro la rabbia fingendo indifferenza. Per quieto vivere ho sopportato – passerà, mi dicevo – fino a rimanere schiacciato. Pazienza, non c’è modo di rimediare.
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