Si definisce “nevrosi” quella condizione psicologica causata non da fattori fisici o psicopatologici, ma dall’interazione fra l’individuo e l’ambiente circostante. Questa condizione psichica è a volte associata a importanti eventi storici e culturali. Freud, ad esempio, parlava di nevrosi pensando ai soldati della Prima Guerra Mondiale che mostravano atteggiamenti al di fuori della realtà per sfuggire alla condizione di stress a cui erano sottoposti. L’etnopsichiatra martinicano Frantz Fanon, invece, l’associava al colonialismo e agli effetti devastanti che aveva sui colonizzati e sullo sradicamento che hanno esperito.
È proprio quest’ultimo con il suo libro I dannati della terra – saggio che gode della prefazione di Jean-Paul Sartre – che ha ispirato Nevrosi, primo romanzo di Tsitsi Dangarembga alla sua terza ripubblicazione in Italia grazie a Pidgin per la collana Mangrovie dopo le prime edizioni Frassinelli e Gorèe. Finalista al Booker Prize 2020 con This Mournable Body e nota anche in Germania come documentarista, l’autrice originaria dello Zimbabwe scrisse il suo primo romanzo nel 1988, incluso poi dalla BBC nel 2018 fra i 100 romanzi che hanno influenzato il nostro tempo.
La trama di «Nevrosi»
La storia di Nevrosi inizia subito con un incipit d’effetto, una confessione diretta da parte di Tambudzai, la protagonista: «non provai dispiacere quando mio fratello morì. E non intendo scusarmi per la mia freddezza». Ambientato nella Rhodesia del Sud fra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta sotto il periodo coloniale – che per la Rhodesia, ora Zimbabwe, finisce nel 1979 – la storia di Tambudzai inizia con la morte di suo fratello Nhamo a seguito di una parotite mentre era nella scuola della missione a Umtali dove lo zio Babamukuru è il preside.
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La morte di Nhamo dà inizio, come dice la narratrice nell’incipit, a una storia di fuga di cinque donne: la protagonista stessa, sua madre Ma’Shingayi, le sue zie Lucia e Maiguru e sua cugina Nyasha. La fuga a cui allude è, in realtà, un’emancipazione da un contesto non solo coloniale, ma anche patriarcale, che relega le donne al focolare e impedisce loro un’adeguata istruzione e un avvenire migliore come spetta solitamente agli uomini. Con questo primo tassello della sua trilogia, Dangarembga inizia a raccontare quello che è per la protagonista un lungo e doloroso processo in cui, parafrasando il titolo dell’edizione italiana di Edizioni Gorèe, può finalmente urlare al mondo di aver trovato «la nuova me».
La nevrosi dell’indigenato
Come si è anticipato all’inizio, il romanzo di Dangarembga, in italiano precedentemente noto con i titoli Condizioni nervose (Frassinelli, calco dall’originale inglese Nervous Conditions) e La nuova me, è stato ritradotto da Stefano Pirone con il titolo Nevrosi, che ben si rifà all’esergo tratto dai Dannati della terra di Fanon, più precisamente dall’introduzione scritta da Sartre: «l’indigenato è una nevrosi». La condizione di indigeno nei paesi coloniali è uno stato, afferma Sartre, indotto dai coloni per controllare meglio i colonizzati attraverso il loro consenso. Quest’ultimi arrivano difatti a provare inferiorità e di conseguenza accettano la colonizzazione con l’illusione di miglioramento.
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Quello che Dangarembga vuole dimostrare con Nevrosi e successivamente con gli ancora inediti da noi The Book of Not e This Mournable Body è una rottura lenta e dolorosa di questa condizione di sottomissione, che l’autrice in varie interviste afferma sia presente ancora oggi nell’Africa post-coloniale, che lascia nella psiche delle persone smarrimento e sradicamento, l’impossibilità di una vera emancipazione con mezzi propri. La trilogia di Dangarembga ricorda vagamente quella inaugurata con Le cose crollano di Chinua Achebe, che come Dangarembga condivide lo stesso destino di essere stato il primo scrittore africano a scrivere in inglese nel proprio paese di appartenenza – per Achebe la Nigeria –, ma allo stesso tempo l’aver ritratto l’evoluzione dell’Africa da pre- a post-coloniale con i suoi effetti devastanti.
La Rhodesia secondo Dangarembga
Per comprendere al meglio Nevrosi è necessario parlare di quella che era la Rhodesia nel periodo in cui è ambientato il romanzo. Quest’ultimo – che oltre a dare i natali a Dangarembga gli ha dati anche al Premio Nobel Doris Lessing – viene dipinto dall’autrice come frammentato in due: da un lato quello rurale ancorato alle usanze della popolazione di lingua shona, e dall’altro quello delle missioni religiose, in prevalenza realizzate da persone bianche.
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Da un lato, dunque, vi sono Tambudzai con la sua famiglia, i cui figli se arrivano alla terza classe a scuola è già tanto, in quanto devono dare una mano ai genitori a coltivare la terra, e dall’altro Babamukuru e la sua famiglia, trasferitisi in Inghilterra per studiare e poi tornati in Rhodesia dove quest’ultimo fa il preside della scuola missionaria di Umtali. La cosa sconcertante, però, sono gli effetti che questa frammentarietà implica nei figli di Babamukuru, Chido e Nyasha, che quasi hanno dimenticato la lingua shona e le maniere del loro popolo per ciò che la protagonista definirà più avanti “inglesità”:
Quello che disse Maiguru era sconcertante, sconcertante e offensivo. Non mi aspettavo che i miei cugini fossero cambiati, di certo non in modo così radicale, solo perché erano stati via per un po’. Oltretutto, lo shona era la nostra lingua. Cosa significava che la gente lo dimenticava? […] Ora erano diventati degli estranei. Smisi di sentirmi offesa e cominciai a essere triste.
La nuova educazione di Tambudzai
Questa frammentarietà alienante la imparerà presto anche Tambudzai. Quando, infatti, il fratello Nhamo perderà la vita nel 1968, Babamukuru decide di farsi carico della nipote per farla studiare alla missione. Ben presto la protagonista vive un certo disagio nel vivere nella missione, dapprima percependolo nella cugina Nyasha, «che aveva una natura egualitaria e aveva preso sul serio le lezioni sull’oppressione e la discriminazione che aveva imparato sulla propria pelle in Inghilterra», e poi osservando gli interni della casa dello zio:
Ogni angolo della casa di Babamukuru – ogni superficie lucida, ogni contorno morbido e ogni piega – sussurrava il suo insistente messaggio di comodità, agio e riposo in modo così lusinghiero, così seducente, che prestarvi attenzione, fermarmi a pensarci, sarebbe stata la mia rovina.
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Il concetto di casa e la figura di Nyasha sono strettamente collegate. Tambu, infatti, scoprirà che l’educazione inglese ricevuta dalla cugina viene negata all’interno delle mura della casa missionaria. Questo perché Babamukuru ha assimilato valori di dominazione bianca coloniale che, sommata al concetto patriarcale tribale della popolazione Shona, lo rende alla stregua di un dio la cui autorità non deve essere discussa, e di conseguenza Nyasha risulta essere fuori posto al ritorno dall’Inghilterra:
Per fortuna, o forse per sfortuna, nel corso della sua vita Babamukuru si era trovato – come figlio maggiore, come africano precocemente istruito, come preside, come marito e padre, come persona che provvede a molti – in posizioni che gli permettevano di organizzare il suo mondo vicino e i suoi contenuti come desiderava. Anche quando non era questo il caso, come quando andò alla missione da ragazzo, il risultato finale di quei periodi di sottomissione fu un potere più grande di prima. […] Accettò stoicamente la propria divinità. Pieni di soggezione, l’accettavamo anche noi. Ci stupivamo di quanto fosse benevola quella divinità. Babamukuru era buono. Su questo eravamo tutti d’accordo. E, cosa ancora più importante, Babamukuru aveva ragione.
Innesto fra dominazione coloniale e patriarcato tribale
La figura di Babamukuru è frutto di un cortocircuito creatosi in Inghilterra nell’incontro fra vecchie tradizioni tribali patriarcali e il dominio coloniale bianco, che invece di risvegliare la coscienza in Babamukuru lo porta ancora di più a sottomettere gli altri, soprattutto la nipote, a cui rinfaccia sempre i sacrifici che fa per pagarle la retta per farla diventare una persona perbene:
Infine, mi spiegò che alla missione non sarei solo andata a scuola, ma avrei imparato i modi e abitudini che avrebbero reso i miei genitori orgogliosi di me. Ero una ragazza intelligente ma dovevo anche diventare una brava donna, disse, sottolineando entrambe le qualità in egual misura e non vedendo alcuna contraddizione in ciò.
Babamukuru è colui che impedisce a Nyasha di leggere L’amante di Lady Chatterley, un libro che con la sua storia di adulterio promulga un amore libero e lontano dagli schemi patriarcali; colui che ha bisogno che la moglie, laureata come lui, neghi la propria identità per far sì che possa avere il controllo su tutto e su tutti. Lo zio di Tambu continua ancora a prendere decisioni che mettono le donne in un livello di inferiorità e nega loro un’emancipazione come succede con l’organizzazione del matrimonio fra Lucia, zia di Tambu, e Takesure, un lontano cugino di Babamukuru:
Ciò che serviva in quella cucina era una combinazione tra il distacco di Maiguru e la determinazione di Lucia. Avevano tutte bisogno di allargare un po’ la prospettiva, di fermarsi a considerare le alternative, ma la questione era troppo intima. Colpiva in modo troppo bruciante, acuto e doloroso le immagini sensibili che le donne avevano di se stesse, immagini che in realtà non erano altro che riflessi. Ma alle donne era stato insegnato a riconoscere questi riflessi come la loro persona e ora era spaventoso anche solo iniziare a pensare che i fatti che le contraddistinguevano come gruppo, come donne, come un certo tipo di persone, fossero solo dei miti; era spaventoso riconoscere che generazioni di minacce, di aggressioni e di abbandoni avevano trasformato questi miti nella realtà estrema e divisiva che si trovavano di fronte, quella delle Maiguru o delle Lucia.
Principio di emancipazione
A poco a poco, Tambudzai inizia a capire come sia necessario spingersi oltre il proprio passato e la propria eredità culturale per emanciparsi, ma il fatto di dipendere da Babamukuru rende difficile tutto ciò, in quanto è l’unico detentore di mezzi che permettono una completa emancipazione, e chi si ribella contro di lui come farà la protagonista in seguito viene considerato «un essere malvagio nella mia dimora, intenzionato a distruggere ciò che ho creato»:
Le cose che Nyasha diceva mi davano sempre molto da pensare. È così che iniziai, molto timidamente, a considerare le conseguenze del nostro passato, ma non potevo spingermi lontano come Nyasha. Semplicemente non ero pronta ad accettare che Babamukuru fosse un artefatto storico; o che vantaggi e svantaggi fossero predeterminati, per cui Lucia non poteva sperare di ottenere molto grazie alla generosità di Babamukuru; e che il beneficio sarebbe stato davvero a lungo termine solo se persone come Babamukuru avessero continuato ad adempiere ai loro obblighi sociali e se persone come Lucia si fossero date da fare.
Tambudzai sa che è difficile staccarsi dalla figura di Babamukuru. Ha bisogno delle risorse economiche e ha bisogno dell’educazione che riceve dalle scuole missionarie. L’educazione missionaria, però, la pone sempre in posizione subalterna, ma paradossalmente, come il picchio che becca il ramo su cui si trova, le dà gli strumenti che le serviranno per emanciparsi, per capire che l’inglesità l’ha messa in trappola, così come in trappola si trova Babamukuru, che si crede un semidio, ma in realtà è controllato dall’ideologia coloniale, come la protagonista comprende da alcune parole della cugina:
«Sono loro ad avermi fatto questo», accusò, sussurrando ancora. «Davvero, sono stati loro». E poi si fece severa. «Loro non hanno colpe. È stato fatto anche a loro. Lo sai che è così», sussurrò. «A tutti e due, ma soprattutto a lui. Gli hanno fatto passare tutto questo. Ma non è colpa sua, lui è buono». La sua voce assunse un accento rhodesiano. «È una brava persona, un bravo africano. Un cafro maledettamente bravo», affermò con tono sarcastico. Poi tornò a sussurrare. «Perché lo fanno, Tambu?» sibilò amaramente, con il volto che si contorceva dalla rabbia. «A me, a te e a lui? Vedi cosa ci hanno fatto? Ci hanno portati via. Lucia. Takesure. Tutti noi. Hanno privato te di te, lui di lui, noi stessi l’uno dell’altro. Noi ci prostriamo. Lucia per un lavoro, Jeremiah per i soldi. Papà si prostra davanti a loro. Noi ci prostriamo davanti a lui». Cominciò a dondolare, con il corpo teso che fremeva.
Da questo punto in poi, inizia il lungo e difficile cammino di Tambudzai verso l’emancipazione. Migliorare la propria condizione di vita e aprire la via verso l’emancipazione delle donne della sua famiglia è possibile soltanto usando i mezzi del dominatore, che la ragazza dovrà imparare a usare attraverso il racconto della propria storia, attraverso l’osservazione di meccaniche di potere che deve sovvertire, però, cercando di non dimenticare le sue radici e facendole convivere con l’inglesità che presto acquisirà completamente.
La storia di come tutto è cominciato
Tsitsi Dangarembga è stata la prima donna nera dello ZImbabwe a scrivere in lingua inglese, ma è stata anche fra le prime scrittrici africane a porre l’accento sul fatto che la lotta coloniale debba andare a braccetto con quella contro il patriarcato. Elogiata giustamente da Chinua Achebe, Nevrosi (acquista) costituisce il primo capitolo di una trilogia – di cui si spera che Pidgin pubblichi anche gli altri capitoli in Italia – che raggiunge un tassello in più rispetto a quanto fatto da Achebe, dimostrando come la lotta per l’indipendenza africana non è tanto una questione di etnicità, quanto anche una questione di genere. Combattere l’ideologia coloniale significa combattere contro l’europeo tanto quanto l’uomo bianco e i suoi valori patriarcali e razzisti che impediscono non solo l’emancipazione degli uomini africani, ma anche delle donne africane, spesso vittime silenti di questa ideologia.
All’epoca ero giovane e in grado di scacciare via certe cose, ma i semi crescono. Allora non ne ero consapevole, ma non potevo più accettare il Sacro Cuore e ciò che rappresentava, come se fosse un’alba sul mio oriz- zonte. In silenzio, inavvertitamente e in maniera molto tempestiva, qual- cosa nella mia mente iniziò ad affermarsi, a mettere in discussione le cose e a rifiutarsi di farsi fare il lavaggio del cervello, portandomi al momento presente in cui sono stata in grado di raccontare questa storia. È stato lungo e doloroso per me, questo processo di espansione. Si è protratto per molti anni e potrebbe riempire un altro volume; ma la storia che ho raccontato qui è la mia, la storia di quattro donne che ho amato e dei nostri uomini. È la storia di come tutto è cominciato.
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