Quando parliamo di letteratura argentina, i filoni ricorrenti sono sempre due: la letteratura fantastica, egemonizzata da Silvina Ocampo, Adolfo Bioy Casares e Jorge Luis Borges – fautori dell’immaginazione ragionata, dove reale e fantastico convivono nel momento in cui quest’ultimo dà soluzioni all’impossibilità del reale –, e quello della letteratura poliziesca e del giornalismo investigativo di autori come María Angélica Bosco e Rodolfo Walsh.
C’è, però, un autore vissuto per ben 106 anni che ha introdotto qualcosa di nuovo nella letteratura argentina. È stato scrittore, nuotatore, arbitro di boxe e magistrato, ha creato 6.000 palindromi e neologismi (tuttora d’uso comune nello spagnolo sudamericano) e i suoi romanzi hanno titoli rigorosamente composti da sette lettere. Quest’autore si chiama Juan Filloy, ed è il primo che ha portato la letteratura dell’assurdo in Sudamerica con romanzi come Op Oloop, la cui prima edizione risale a novant’anni fa e che i tipi di Ago Edizioni hanno portato per la prima volta in Italia con traduzione di Giulia Di Filippo.
La trama di «Op Oloop»
Optimus Oloop, per tutti Op Oloop, è uno statista finlandese trapiantato in Argentina e noto per essere «il metodo in persona, il metodo fatto verbo», «un cronometro di esattezza ineluttabile». Il protagonista è quindi un uomo abituato a segnare qualsiasi cosa, a tenere d’occhio l’orologio per evitare di fare ritardo agli appuntamenti importanti e ad avere qualsiasi cosa sotto controllo.
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Un incidente, però, porta per la prima volta Op Oloop a fare tardi a un appuntamento importante: il ricevimento in onore del suo fidanzamento con Franziska. Il protagonista, allora, avverte una crepa nella sua vita fatta a metodo e nell’«edizione tascabile dell’inferno» che è la sua mente inizia un moto tellurico che lo porta a mettersi in discussione e ad accettare l’imprevedibilità del caso.
L’uomo esistenzialista secondo Juan Filloy
Questo romanzo di Juan Filloy trasuda assurdo ed esistenzialismo da tutti i pori. Op Oloop, infatti, sembra un personaggio uscito dalla penna di Samuel Beckett – anche se, per motivi cronologici, azzarderemmo a dire che forse lo ha anticipato –, se non addirittura il padre di personaggi altrettanto assurdi come T. Singer e Bjørn Hansen, usciti invece dalla penna del norvegese Dag Solstad. Ci troviamo difatti di fronte a un personaggio che, parafrasando Beckett, si ritrova fuoriuscito dal ventre materno con un piede nella tomba, ovvero nella monotonia quotidiana, e che come i personaggi di Solstad si ritrova presto a esercitare la follia per gridare il proprio rifiuto verso queste costrizioni.
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Questo dissidio fra uomo-metodo e uomo-caos si percepisce ad esempio nella lingua usata da Filloy. Quest’ultima, definita in postfazione da Di Filippo «un pastiche linguistico che rammenta a tratti uno stile gaddiano eterogeneo ma perfettamente funzionante», è fatta da neologismi, termini desueti, termini volgari, specialistici e stranieri che in teoria sembra dare ordine alla vita di Op Oloop, ma in realtà ne tradisce il caos.
Anche un dettaglio irrilevante come il nome del protagonista, però, rivela questo dissidio fra ordine e caos: all’ottimismo metodico del nome intero Optimus Oloop si sostituiscono difatti i saltelli imprevisti e caotici dell’abbreviazione Op Oloop, un nome onomatopeico che allude alla crescente insensatezza del suo protagonista, che al passo preciso e metodico della sua vita sostituirà ben presto il saltello imprevedibile e incontrollabile del caso.
Op Oloop, un metodo fattosi verbo che vuole governare l’amore
Fino al momento dell’incidente, Op Oloop considera la vita come un «tracciare schemi: nell’aria, nella terra, nell’acqua, nelle cose: volo, solco, scia, scrittura». Paragonandosi a gente illustre come Kant, Pasteur e Edison, lo statista considera la sua carne come «schiacciata da cliché inesorabili», al punto che anche attività come l’ozio, un massaggio ai piedi o il piacere sessuale sono scandite da una noiosa routine quotidiana costrette in un breve lasso di tempo al di fuori del quale non si può più andare.
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Parlando di passione, è proprio l’amore per Franziska il terreno scivoloso su cui il metodo infallibile del protagonista rischia di vacillare. Op Oloop rende razionale e metodico un sentimento di per sé volitivo come l’amore nel momento in cui porta prima la donna a essere sua amica e confidente, addirittura come una figlia (essendo la ragazza orfana di madre), e solo dopo all’innamoramento, una volta accertatosi che fra loro ci sono sentimenti reciproci, come nel momento in cui la ragazza lo difende dall’accusa di pazzia mossa dal Console di Finlandia durante il ricevimento:
L’amore è una psicosi speciale, che pervade le anime e interferisce contemporaneamente nelle menti di due individui. Quando ne colpisce solo uno, non è amore, ma desiderio, irrequietezza. Ed è così che, per un meccanismo di identità spirituale e identificazione fenomenologica, l’amata pensa e sente i pensieri e i sentimenti dell’amato e, immune alla boriosa normalità che la circonda, fa sua la visione e l’ossessione dello sposo visionario e ossesso.
Impalcatura di fallimenti
Già all’inizio del romanzo, però, Op Oloop ammette «le menzogne delle mie sottomissioni», di essere «un silenzioso Chisciotte dell’equilibrio» che, invece di scontrarsi con i mulini a vento, si scontra con una camionetta dell’ortofrutta che lo sveglia dal torpore del metodo facendogli capire che perfino la persona più metodica di tutte non è esente dal fallimento e dall’integrità, come gli fanno notare i commensali del ricevimento di fidanzamento, che affermano come, se da un lato il suo metodo è una necessità organica, dall’altro lo porta a commettere incongruenze.
L’incongruenza più grande che commette Op Oloop è proprio nell’amore, in quanto ben presto l’arrivo di una persona appartenente al suo passato lo porta a mettere in gioco i propri sentimenti allargando, così, le crepe già presenti nella sua vita metodica:
«Mi rincresce deludervi. Sono innamorato ma profondamente triste. Più ci penso, più vaneggio. È orribile! Ho sempre ritenuto ridicolo e ‘disumano’ credere che l’amore – un istinto come gli altri – potesse dare un senso alla vita. Non riesco ad abituarmi a questa idea. Ma dev’essere così».
Op Oloop comprende, dunque, che «la presunta sapienza non è stata in grado di difenderlo dalla malattia dell’amore». Come il Chisciotte comprende che non esistono giganti da sconfiggere e principesse da salvare, lo statista comprende che non può controllare la propria vita e i propri istinti poiché ingranaggio di qualcosa di più grande di lui che vede la vita accadere fuori e dentro di sé e non può far altro che esserne spettatore.
Architetto di un destino da fallito
Con Ago Edizioni arriva per la prima volta in Italia un autore che ha portato una sfumatura nuova a una letteratura sudamericana troppo egemonizzata dal fantastico e dal gusto per l’inchiesta e il poliziesco. Op Oloop (acquista) di Juan Filloy racconta la lotta di un Chisciotte delle statistiche e degli schemi che riacquista la ragione grazie a sentimenti più grandi di lui, che nessun metodo può controllare e che ci fanno capire ancora una volta che siamo esseri-oggetto, ob-jecto, gettati in mezzo al vuoto esistenziale e irrazionale che ci fa esistere e che si fa baffo di ogni nostro tentativo di controllarlo.
Op Oloop però si sentiva l’eroico architetto del proprio destino. E abituato all’ordine, comodamente immerso nel comfort del sistema, si ostinava nel masochismo perseverante di superare sé stesso. Perché? Per quale scopo? Per subire l’onta della sconfitta? Per piangere dinanzi al disonore di zoppicare tra le sue stesse rovine?
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