Solitudini che si incontrano tramite la lingua

«L'ora di greco» di Han Kang

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«L'ora di greco» di Han Kang

«Taci. Su le soglie/del bosco non odo/parole che dici/umane; ma odo/parole più nuove/che parlano gocciole e foglie/lontane». Questi sono i versi iniziali di La pioggia nel pineto di Gabriele D’Annunzio, che nel silenzio di due solitudini che si incontrano in una giornata di pioggia si immagina una lingua nuova fatta di silenzi e rumori non umani, creando una comunione fra persone che fra loro non hanno nulla in comune.

Maestra di solitudine e incomunicabilità è la sudcoreana Han Kang, nota al pubblico italiano per Atti umani e La vegetariana, dei cui romanzi recentemente vi sono adattamenti teatrali che stanno facendo il giro dei più prestigiosi teatri italiani. L’autrice di Gwangju è tornata nelle librerie italiane sempre con Adelphi con L’ora di greco, che della Vegetariana è considerato dall’autrice stessa un suo lieto fine.

La trama di «L’ora di greco»

La storia di L’ora di greco è ambientata a Seoul. I protagonisti sono due: una donna senza nome, una volta professoressa e redattrice editoriale che a seguito dell’affido del figlio concesso al marito e di altri traumi ha perso l’uso della parola; un uomo, anche lui senza nome, un professore di greco che ha vissuto fra Francoforte e Seoul e che sta perdendo gradualmente la vista e con sé il ricordo di un amore che non è mai fiorito.

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Terreno di incontro dei due protagonisti è un corso di greco antico tenuto dal professore senza nome, un corso che non solo si confronta con la lingua, ma anche con il pensiero di autori come Platone. La donna è interessata fin dalla tenera età alle lingue straniere e alla loro possibilità di estraniarsi, e nel greco trova un modo di comunicare l’indicibile. Questa incomunicabilità l’avvicinerà all’insegnante di greco, il quale trova nel mutismo della donna un modo per poter esprimere se stesso e vedere dentro di sé.

«L’ora di greco», il lieto fine ideale di «La vegetariana»

Come annunciato all’inizio, Han Kang considera L’ora di greco un lieto fine per La vegetariana. Quest’ultimo, infatti, ruota intorno alla storia di Yeong-hye, una donna che a causa di un incubo di sangue cade in un mutismo che la porta a rifiutarsi di mangiare fino a dimagrire e a trasformarsi letteralmente in un vegetale, un atto che sancisce un netto contrasto con un sistema sociale patriarcale che costringe le donne coreane a vivere rispettando certe gerarchie e tradizioni.

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Quella di Yeong-hye, però, resta una rivoluzione muta, che alla fine nessuno è disposto a dar retta, per il rifiuto della donna a comunicare le sue ragioni e a scegliere una soluzione estrema come la solitudine e la rinuncia al proprio corpo. Con L’ora di greco, però, Han Kang vuole proporre una soluzione diversa: la possibilità di una nuova lingua che nel silenzio sa unire persone rinchiuse nella solitudine e che grazie a un linguaggio condiviso possano comunicare l’esistenza del loro dramma.

Le parole del silenzio

Han Kang sembra dare una soluzione ai dissidi di Yeong-hye anche a livello di narratologia. Se in La vegetariana, infatti, la storia della protagonista è raccontata attraverso gli occhi delle persone a lei care – in particolare la sorella e il marito – che, però, con la propria prospettiva precludono alla donna una certa indipendenza e libertà, la storia della protagonista anonima di L’ora di greco è raccontata non solo dalle parole dell’insegnante di greco, ma anche dai pensieri e dai silenzi della protagonista, che attraverso le ferite del suo corpo rende possibile comunicare i suoi traumi e il suo silenzio:

Anche il suo corpo testimonia di quel prolungato mutismo. Sembra più robusto e pesante di quanto non sia in realtà. L’andatura, i movimenti di mani e braccia, i contorni morbidi del viso e delle spalle – tutto contribuisce a creare l’impressione di confini forti e netti. Attraverso cui nulla trapela e nulla si infiltra.

La donna riesce, però, a trovare un modo di penetrare questi confini forti e netti per comunicare il suo bisogno di consolazione, il suo modo di gridare al mondo il suo dolore e la sua esistenza, e lo trova nella lingua. La lingua che sceglie per esprimersi non sarà l’inglese o il francese, ma il greco antico, quella usata da Platone prima della decadenza della civiltà greca, quella ancora rigida e complessa dal sapore primordiale che, morta da secoli, può essere usata da poche persone, soprattutto da chi si nutre di silenzi:

Forse perché è una lingua morta da secoli, che non può più essere utilizzata nella comunicazione orale? Silenzi, timide esitazioni e reazioni di riso soffocato riscaldano lentamente l’atmosfera in classe, e lentamente la raffreddano.

Una conversazione al buio nel bosco degli abissi

La protagonista usa, dunque, una lingua morta per esprimere il suo silenzio, una lingua che appartiene al passato e che usa chi da questo passato fa fatica a uscire. Uno di questi è il professore di greco, il quale deve sollevare la spada borgesiana che si frappone fra lui e la donna e soprattutto fra loro due e il mondo, in quanto rinchiusi ancora in «un silenzio ovattato come prima di imparare a parlare – anzi, come prima di venire al mondo».

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Non è un caso che si sia citato Borges, in quanto il professore di greco lo cita all’inizio del romanzo. Entrambi, infatti, hanno perso o stanno perdendo gradualmente la vista. Il professore, inoltre, si ritrova nella sensazione di vivere come in un sogno, di vivere in un’illusione, ma con la consapevolezza che «il sangue scorre e le lacrime sgorgano»: lui come essere umano vive esperienze belle e traumatiche allo stesso tempo, e se non può vederle di conseguenza non riesce a ricordarle, ma la ricerca di una lingua può aiutarlo ad esprimere gli spazi vuoti lasciati dalla graduale perdita della vista.

Sia lui che la protagonista si ritrovano con in mano «una miriade di petali freddi, ostinatamente silenziosi»: i ricordi per loro sono frammenti che non si riescono a legare. Il primo perché non ha quasi più una memoria visiva; l’altra perché non ha più le parole. Come si può fare, allora, a dare forma ai ricordi, ai propri traumi e al proprio dolore? Attraverso la condivisione della solitudine, attraverso il silenzio che si fa lingua e che riempie gli spazi vuoti lasciati dalla perdita comunicando come l’esperienza umana sia soggetta al decadimento e alla perdita e come questa sia normale per la crescita di un essere umano.

Il greco come lingua del silenzio e dell’assenza

È, dunque, L’ora di greco (acquista) il lieto fine adatto per La vegetariana? Per noi lettori la risposta è sì: la scrittura minimale ed evocativa di Han Kang ci ha dimostrato ancora una volta come sia possibile dare voce al silenzio e alla perdita, come sia possibile creare una comunione fra solitudini attraverso il buio e l’incomunicabilità. Han Kang è riuscita ancora una volta a dare voce al silenzio creandone questa volta una assordante che riesce a fare breccia in chi non è in grado di ascoltare. I silenzi, i gesti, le cicatrici dei nostri corpi sono segni di un linguaggio che sa unire le persone nel trauma e nel dolore e che gli dà la possibilità di andare avanti e di avere una consolazione.

Una lingua sfilacciata nel corso di migliaia di anni da un numero incalcolabile di parlanti e scriventi. Una lingua che lei stessa, parlando e scrivendo, aveva sfilacciato tutta la vita. Ogni volta che stava per pronunciare una frase, ne sentiva battere il cuore antico. Un cuore rattoppato, prosciugato, inespressivo. E più lo sentiva, più stringeva le parole tra le dita. Finché a un certo punto la presa si era allentata. I cocci spuntati erano caduti ai suoi piedi. Gli ingranaggi, che prima giravano incastrandosi alla perfezione, si erano fermati. Una parte di lei, logorata dalla lunga e dura resistenza, era venuta via come carne, come tofu tagliato con un cucchiaio.

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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