La storia delle nostre vite è anche la storia della Terra

«Orbital» di Samantha Harvey

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«Orbital» di Samantha Harvey

In questi ultimi anni, ora più che mai, fra cambiamento climatico, disastri ambientali e una pandemia è diventato molto forte il bisogno di tutelare il nostro pianeta. Proteggere la Terra non soltanto significa salvaguardare ecosistemi e forme di vita disparate, ma significa soprattutto salvare l’umanità e tutto il patrimonio di storia e cultura che si porta dietro. La Terra contiene difatti la storia dell’umanità, e la sua fine significherebbe la fine di tutti noi.

Nell’edizione 2024 del Booker Prize ha prevalso un romanzo ambientato nello spazio: nulla di fantascientifico, non vi sono alieni, guerre interstellari e robe del genere, ma degli astronauti che meditano sulle proprie vite e comprendono l’importanza di proteggere ciò che hanno vissuto attraverso la salvaguardia della Terra. Il romanzo in questione è Orbital, la sua autrice è Samantha Harvey, e possiamo leggerlo anche in italiano grazie a NN Editore.

La trama di «Orbital»

Due russi, un italiano, un americano, una giapponese e un’inglese si trovano a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Sembra la premessa per una barzelletta, ma in realtà è il contesto in cui si svolge Orbital. Anton, Roman, Pietro, Chie, Nell e Shaun sono astronauti provenienti da tutto il mondo che devono spendere circa nove mesi nello spazio per condurre esperimenti e indagini per documentare quanto succede nello spazio, ma anche sul pianeta Terra.

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I sei astronauti si ritrovano a compiere le sedici orbite della Terra vivendo sedici fra albe e tramonti. Ciò corrisponde, però, a una giornata sul pianeta Terra, una giornata in cui i protagonisti passano in rassegna i propri ricordi, osservano il tempo meteorologico che cambia, e soprattutto raccolgono quanto possibile per conservare la bellezza del proprio pianeta e dunque delle loro vite.

«Orbital»: sedici orbite per amare la Terra

La particolarità di Orbital è quella di essere un romanzo senza trama. È come se Stoner di John Edward Williams fosse stato ambientato nello spazio: quella che leggiamo è una meditazione sulla vita che scorre in tutta la sua lentezza e nei movimenti automatici dei suoi protagonisti come Roman, ad esempio, che calcola i giorni che sono passati per questa missione oppure le flessioni che deve fare per tenersi in allenamento.

In sostanza, ci ritroviamo di fronte a tanti Major Tom che dalle stelle osservano come «il pianeta Terra sia triste e non ci sia niente che possiamo fare», ovvero che prendono consapevolezza del fatto che la bellezza della Terra sta nella sua lentezza, nel suo comunicare nostalgia e serenità nel suo immobilismo, e di come, dunque, questo aspetto vada preservato. Per comprendere al meglio questo libro di per sé particolare si legga, allora, quanto scrive Gioia Guerzoni, la traduttrice del libro, in merito a quello che secondo lei sarebbe il messaggio del romanzo:

Tra i mille messaggi di questo libro, che parla di noi poveri umani e di come dimentichiamo il nostro pianeta puntando allo spazio, c’è proprio questo spronarci a riportare lo sguardo alla bellezza delle cose, alla grazia, al cuore degli uomini.

All’accelerazione e all’eccessivo progresso tecnologico che mira in tutti i modi a conquistare lo spazio per trovare nuovi luoghi da abitare, Samantha Harvey contrappone la lentezza del pianeta Terra, la voglia di tenere lo sguardo per terra e non sollevato verso il cielo, la voglia di combattere per difendere chi come una madre ci sta dando la vita invece di abbandonarla alla prima difficoltà.

«Orbital»: la lentezza dell’astronauta

Come già detto, Harvey utilizza il tempo dilatato dello spazio per riportarci nella dimensione della lentezza, dimensione di cui ormai non abbiamo più cognizione a causa dell’accelerazionismo che porta, inoltre, a ignorare i problemi del nostro pianeta a favore di un progresso scellerato e poco controllato. Epitome di questa lentezza è il lavoro dell’astronauta che, seppur affascinante, risulta monotono, al punto che Nell lo definisce una trappola, in quanto ci si ritrova a dover svolgere le stesse azioni senza avere una chiara cognizione del tempo che passa.

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Tuttavia, questa lentezza dell’astronauta è una lentezza che permette di connettersi ai propri pensieri e ai propri ricordi, che riesce a stabilire un qui e ora per contrastare un tempo accelerato che ci impedisce di connetterci alle nostre sensazioni: «Arrivi qui» dice sempre Nell, «e la tua vita ricomincia daccapo e tutto ciò che hai portato con te l’hai portato nella tua testa e, a meno che non sia utile, rimane nella tua testa perché ora sei qui. Questa è casa».

Nel momento in cui l’astronauta si impone dei tempi e dei limiti, allora «arriva il passato, il futuro, il passato, il futuro. È sempre adesso, non è mai adesso». L’astronauta riesce a imporre il suo tempo, a liberarsi dell’avidità che ha modellato la Terra per il semplice profitto e per una gloria illusoria che, in realtà, non fa altro che accelerarne la sua estinzione.

Contro l’avidità dell’essere umano

La sfida che si impongono i sei astronauti non è quella del profitto, quella di arrivare prima di altri a trovare forme di vita nello spazio e a fare scoperte che possono aumentare il progresso tecnologico, ma è quella di rendere casa tutto ciò che incontrano sul proprio cammino, ovvero di stabilire un legame affettivo verso tutto ciò che ci permette di vivere:

Niente a che vedere con lo scintillante sogno spaziale dell’Occidente capitalista, no, è un pesante utilitarismo grigio, un tempio della più solida ingegneria e del genio del pragmatismo. Una capsula del tempo degli anni post-sovietici, gli ultimi riverberi di un secolo scomparso. C’è un tentativo di fare casa, di dire questo è il pavimento e quello il soffitto e questo è il verso giusto, di sfidare la spazialità dello spazio che domina gli altri moduli dove i concetti di alto e basso, destra e sinistra sono scomparsi.

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Se da un lato sembra che anche i protagonisti contribuiscano a razziare lo spazio, in realtà, nel momento in cui vogliono definire la propria navicella casa e il proprio team famiglia, stanno semplicemente sottraendo lo spazio alla categorizzazione dell’utilitarismo capitale per una dimensione più affettiva. In questo senso ricorda molto Cast Away di Robert Zemeckis, dove Chuck Noland non colonizza e depreda l’isola su cui approda, ma la trasforma in casa, dandole un suo tempo, in aperto contrasto con le logiche capitalistiche che vogliono quantificare tutto e tenere solo ciò che serve.

Possiamo azzardare, dunque, a dire che i nostri astronauti naufragano nello spazio non solo per lavoro, ma anche per scelta: scelgono lo spazio per escapismo dall’assurdità degli esseri umani che pensano di conquistare qualsiasi cosa, ma in realtà combattono l’ennesima guerra fra animali per la sopravvivenza. Quello che si propongono di fare gli astronauti, allora, è di imporre agli uomini di fermarsi, di cercare di tenersi stretto quanto già hanno e hanno vissuto, e soprattutto di imparare a contemplare il vuoto e la banalità delle cose semplici.

«Orbital», imparare ad ascoltare la complessa orchestra di suoni che è la Terra

Un po’ Cast Away, ma persino un po’ Decameron, Stoner e Generazione X: Orbital (acquista) è un elogio spaziale alla lentezza, alla capacità dell’umano di stupirsi della meraviglia che si nasconde dietro alla banalità e a ciò che non è tecnologicamente avanzato. Samantha Harvey racconta una storia volutamente lenta e con pochi colpi di scena, una sfida per noi lettori per cercare di non accelerare rischiando di condannare il nostro pianeta a distruggersi e a diventare il nulla. Alle volte basta guardare per terra e distogliere lo sguardo dal cielo per capire che il vero progresso è la vita che scorre, che con gioia e dolore ci permette di evolvere e di continuare a essere creature la cui esistenza può essere sì effimera, ma per quello che dura può essere al contempo splendente.

Guardando giù capiscono perché viene chiamata Madre Terra. Tutti associano la Terra a una madre, li fa sentire bambini. Nel loro dondolio di corpi androgini, ben rasati, nei pantaloncini da ginnastica e nei cibi pronti, nel succo bevuto con la cannuccia, le bandierine per i compleanni, il coricarsi presto, l’innocenza forzata di giornate diligenti, tutti hanno degli istanti in cui all’improvviso dimenticano il loro ruolo di astronauti e provano la sensazione fortissima di essere tornati piccoli, all’infanzia. Al di là del vetro, la genitrice li guarda, maestosa e onnipresente.

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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