Camminare sul ghiaccio dei padri

«Melvill» di Rodrigo Fresán

16 minuti di lettura
Melvill

«La parte inventata che non è, mai, la parte disonesta, anzi è la parte che trasforma davvero qualcosa che è semplicemente accaduto in qualcosa così come doveva accadere». Così scriveva lo scrittore argentino Rodrigo Fresán in La parte inventata (LiberAria, 2020). La letteratura è ciò che inizia dove finisce la vita, il vero: quella che ci apre a più possibilità e a più mondi alternativi permettendoci di redimere i nostri fantasmi ed errori.

Tenendo conto di ciò, si può dire che ogni scrittore fa letteratura semplicemente prendendo la vita vera e dandole infinite possibilità. E se ad aver trasformato la propria vita sia stato uno come Herman Melville? Se quel capitano Achab alle prese con la balena bianca Moby Dick e quello scrivano Bartleby con il suo «preferirei di no» provenissero dalla sua vita? A tutto questo cerca di dare una risposta lo stesso Fresán con Melvill, pubblicato recentemente da Mondadori – che nel 2005 aveva già pubblicato dello stesso autore I giardini di Kensington – con traduzione di Giulia Zavagna.

La trama di «Melvill»

Melvill pone al centro due figure: Herman Melville e suo padre, Allan Melvill. Quest’ultimo è un promettente commerciante, finché degli affari sbagliati lo portano alla bancarotta e, inseguito dai suoi creditori, lo costringono a trasferirsi con la famiglia ad Albany, vicino il fiume Hudson, che l’uomo attraversa a piedi in quanto ghiacciato. Dopo questo episodio, Allan si ammala – molto probabilmente una crisi nervosa – ed è costretto a letto. Prima di morire, però, racconta al figlio la sua vita e i suoi viaggi in giro per il mondo durante il Gran Tour.

Quel figlio è Herman Melville, il cui cognome ha una “e” finale in più aggiunta dalla madre, Maria Gansevoort, per sfuggire ai creditori del marito. Scrittore di opere come Moby Dick e il postumo Billy Budd e autore dal talento incompreso e quasi caduto nel dimenticatoio dopo la sua mote – bisogna aspettare il centenario nel 1919 per riportare l’autore in auge –, Herman Melville cerca di indagare con la sua scrittura un padre sventurato, ma dalla presunta vita avventurosa. Cosa è vero e cosa è falso di questo misterioso padre – ma anche dello stesso Melville – non si sa, ma la cosa certa è che una vita non si vive solamente, ma la si scrive.

«Melvill» e il mistero della scrittura

L’idea di scrivere Melvill è strettamente collegata alla trilogia di romanzi di La parte narrata, di cui in italiano è stato pubblicato solo il primo volume, già citato a inizio articolo. Nel terzo e ultimo volume, La parte ricordata, sebbene critichi il proliferarsi di opere di fiction sugli scrittori, il protagonista – uno scrittore in cui si può riconoscere lo stesso Fresán, anche se questi nei Ringraziamenti posti in appendice a Melvill nega di essere lui il protagonista – narra di un’idea di nouvelle su Melville e suo padre. Come spiega nelle note a piè di pagina l’autore, Melville è «una sorta di Cavallo di Troia o, meglio detto, Balena di Troia al cui interno si nascondono questioni che trascendono quelle strettamente letterarie».

Leggi anche:
«Solenoide»: l’iper-romanzo fiume di Mircea Cărtărescu

Le questioni strettamente letterarie e non a cui Fresán fa riferimento sono «leggere e scrivere, i misteri della vocazione letteraria e il modo in cui questa irradia gli ancor più misteriosi misteri della paternità». Si può azzardare a dire, quindi, che questo romanzo si gioca su tre piani: quello di Allan Melvill che racconta la sua vita; quella di Herman Melville che legge, commenta e riscrive la vita del padre; quella dello stesso Fresán, la cui intromissione è evidente nel corso del libro e che cerca di indagare il mistero della letteratura e il suo rapporto con la vita. Abbiamo, dunque, a che fare con due tipi di paternità: una letterale, che è quella di Allan con Herman; una letteraria, che da un lato è quella di Herman che racconta Allan, e dall’altro è quella di Fresán, che diventa “padre” delle vite di Herman e Allan.

Glaciologia melvillogia: il padre del figlio e il figlio del padre

Questo racconto su tre piani inizia da un evento particolare: l’attraversamento del fiume Hudson ghiacciato da parte di Allan Melvill. Dopo questo evento, l’uomo, creduto pazzo da famigliari e conoscenti, è costretto a letto per la malattia. Tuttavia, decide di raccontarsi a Herman, quel figlio allora dodicenne a cui «non molto tempo prima ha diagnosticato un ‘ritardo nel linguaggio e una certa lentezza di comprendonio’ […] ma che, comunque, possiede ‘il dono di capire gli uomini & le cose in modo solido & profondo al tempo stesso».

Leggi anche: Scrivere o non scrivere: il dilemma della letteratura

Melville, allora, diventa «la creazione che ricrea», «un figlio che racconta la storia che il padre non racconterà», colui che cammina sul ghiaccio assieme al padre per scrutare quello che si cela sotto di esso. Nel farlo, Herman prende appunti scrivendo note a piè di pagina, aggiunge capoversi contrassegnati da asterischi a quello che il padre racconta. Il racconto alle volte passa dalla prima alla terza persona singolare, in quanto per riscrivere il padre Melville si mette nei suoi panni per dargli una possibilità diversa da quella che ha vissuto:

Mio padre non ha mai parlato come adesso, eppure così parlerà ora e per sempre, da tempo intrappolato fra le stelle tortuose, le linee tracciate, la mappa difettosa che lo porta infine a questo momento magico di perdita da recuperare. Così mio padre segue la direzione che lo avvicina a questa mia speranza senza trucchi né meccanismi ingannevoli salvo il bisogno di credere in lui, di renderlo credibile, di fare finalmente in modo che lui torni a credere in se stesso.

Da Melvill a Melville attraverso Fresán

Melville afferma inoltre che «non facciamo altro che vivere riscrivendo, veramente, le storie inventate delle nostre vite reali». In queste parole non possiamo che riconoscere il pensiero di Fresán, la cui intromissione è evidente all’interno del libro, come spiega nei ringraziamenti: «buona parte dei nomi e dei luoghi e delle persone e delle date sono reali, ma NON lo sono molte delle loro azioni e dei loro pensieri».

Questa affermazione la si capisce, ad esempio, dai commenti che Allan e Herman fanno a livello metanarrativo sulle note a piè di pagina – qui è evidente l’influenza di autori come David Foster Wallace e Manuel Puig, dove le note a piè di pagina danno alla finzione parvenza di realtà – «che rendono ancora più evidente la vostra impossibilità di capire ogni cosa», oppure sulla falsità dei racconti di viaggio.

Altri aspetti riguardano, ad esempio, alcuni personaggi che appaiono nel romanzo. È il caso per esempio dello stesso Allan, di cui in realtà non ci sono testimonianze di viaggi a Venezia durante il Grand Tour, ma anche del personaggio di Nico C., di cui si può dire – ed è l’unica anticipazione che si può fare – essere un personaggio inventato dalla penna di Fresán e il cui nome Nicolás Cueva altro non è che il corrispondente argentino del noto cantante Nick Cave.

Leggi anche: «La notte dell’incanto». La potenza delle immagini

Parti inventate, sognate e ricordate

Un altro aspetto interessante che certifica l’intromissione di Fresán riguarda il cognome di Melville, cambiato dalla madre dello scrittore per dare a lui e ai fratelli «l’opportunità di ricominciare e di scrivere e leggere una storia nuova, migliore, dalla rotta più sicura e placida». Aggiungere una lettera alla fine del cognome fa capire a Melville la possibilità di diventare “trasformato” e “trasformatore” nello stesso tempo, cambiare il corso della propria storia trasformando le sventure del padre in storie di terre lontane e di naufragi causati da un destino più grande degli uomini, dando così al padre la dignità di un uomo che nonostante la presunta follia ha lottato per un avvenire migliore per la propria famiglia.

Così, allora, Fresán fa dire a Melville le seguenti parole sul proprio cognome, in cui chiede di fare in modo che quella lettera “e” finale sia un fantasma allo stesso tempo vivo, che sia finzione ma allo stesso tempo realtà e che continui a vivere attraverso la narrazione:

La sola cosa che chiedo, come ultima volontà, riguarda un’ultima lettera. La scrivo all’uomo o alla donna che, basandosi sull’impossibile lettura di questa relazione (che nulla e nessuno mi impedisce di sognare come libro insostenibile per me ma sostenuto fra le vostre mani e nei vostri occhi), inventerà un sistema per stampare quella lettera e (quella lettera e, quella e tra parentesi, che volente o nolente sono io e che mi separa da lui perché io possa così raggiungerlo di nuovo, unirmi a lui) in modo quasi traslucido, come se fosse il più vivo dei fantasmi… Alla e finale del cognome di mio padre, che lo trasforma nel mio cognome, rivolgo un’ultima richiesta, quasi una supplica: di concepire me e mio padre come singole parti (inventate e sognate e ricordate) di un tutto. Per farci vivere per sempre, ripetutamente, il paradosso di sentirci terrorizzati all’idea di essere eroi, anche solo per una notte: presi, posseduti da questa paura che proviamo, e che ci coglie su questa riva, dall’altra parte dei valori assoluti. E sappiate che, se ci riuscirete (oh, grazie, grazie, grazie), ci avrete aiutato a ritrovarci finalmente nell’oceano delle nostre coscienze.

Con questa lunga volontà – che il lettore attento capirà essere legata alla copertina del libro, avvalorando ancora di più l’idea di un Fresán “padre” di Allan e Herman – capiamo così l’intento dell’autore: quello di mettere lui la “e” nel cognome Melville, ovvero quello di fondere le parti inventate, sognate e ricordate di Allan e Melville in un tutto della narrazione, dove la vita continua non solo nel ricordo, ma anche nella finzione, che inventando mondi possibili redime i fantasmi dalle colpe del passato, dalle incomprensioni e dai fallimenti.

Nel ventre di una balena chiamata Melvill

Melvill (acquista) è tutto ciò che dovrebbe essere la letteratura: una storia di amore e allo stesso tempo una storia di fantasmi. L’amore per ciò che abbiamo vissuto e che non c’è più, il ricordo delle occasioni perse e mancate, i fantasmi della nostra vita che chiedono di tornare alla vita e liberarsi dall’oblio e dalle colpe. La letteratura è l’arma contro quella che Melville attraverso le parole di Fresán definisce «la dittatura dei morti»: ciò che inventa, sogna e ricorda infinite possibilità di vita per chi non c’è più, che attraverso la narrazione e la rielaborazione può riscrivere la sua storia e darne una degna conclusione.

E poi, una volta sul ghiaccio, mantenere l’equilibrio e muovere qualche passo con cautela, come chi entra in una casa che non conosce o esce da una casa che conosce per avventurarsi in un mondo sconosciuto. Perché, certo, la sensazione è molto strana e familiare al tempo stesso: d’un tratto ci troviamo in un posto nel quale non siamo mai stati pur essendo stati li molte volte o avendo molte volte sognato (essendoci quindi stati a tutti gli effetti) di arrivarci. Ma mai così. La sensazione di scrivere o dire qualcosa che non è mai stato detto o scritto, nonostante lo si faccia nella stessa lingua e con le parole di sempre. Camminare è ciò che si sa. Il ghiaccio è ciò che non si conosce. Camminare sul ghiaccio, allora.

Segui Magma Magazine anche su Facebook e Instagram!

Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

Lascia un commento

Your email address will not be published.