Mescolando memoria e desiderio in una storia ancora da scrivere

«Una storia ancora da scrivere» di Michele Castelnovo

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Una storia ancora da scrivere

«Aprile è il mese più crudele: genera/lillà dalla terra morta, mescola/ricordi e desideri, scuote/le radici assopite con la pioggia primaverile». Così scriveva T.S. Eliot in La terra desolata, un poema della sterilità e della crisi della cultura occidentale espresso attraverso riferimenti colti a testi come i Racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer, le Upanishad, le opere di Richard Wagner o il mito di Tiresia. Eliot, però, lascia trapelare uno spiraglio di rinnovamento di questa cultura in decadenza attraverso l’uso di nuovi punti di riferimento, un bagliore simile al vento dell’ovest di Percy Bysshe Shelley o all’invincibile estate di Albert Camus.

Proviamo a immaginare ora questi versi in un ambiente petroso, corroso dalla risacca del mare, dal cielo grigio come la Liguria, definita da Francesco Biamonti non solo un luogo della civiltà legata «alle cose», ma anche un luogo di frontiera, soprattutto fra passato e presente, sterilità e l’attesa di una primavera. Tutto questo lo racconta Michele Castelnovo, direttore di Magma Magazine, nel suo romanzo d’esordio Una storia ancora da scrivere, edito per i tipi di Leucotea.

La trama di «Una storia ancora da scrivere»

Una storia ancora da scrivere ha per protagonista Giovanni Montesanto, giovane uomo della provincia brianzola – Giussano, per la precisione – alla ricerca di realizzazione, specie nella scrittura, che decide di trasferirsi a Verezzo, nei pressi di Sanremo, dove mette a posto la casa ereditata dalla nonna Germana. Il protagonista decide di andarsene a seguito di eventi che hanno stravolto la sua vita, fra cui la rottura del suo rapporto con Elisabetta.

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A Verezzo Giovanni incontra Luca Modena, proprietario di un alimentari-tabacchi a Verezzo e anche lui in cerca di rifugio da qualcosa che ha sconvolto la sua vita. Come Bruno e Pietro in Le otto montagne, i due sono come il giorno e la notte, ma allo stesso tempo si completano attorno a un punto in comune: la ricerca di un nuovo inizio e il superamento dello stallo in cui si trovano.

Una storia da scrivere nel mese più crudele

In origine, Una storia ancora da scrivere doveva chiamarsi Il mese più crudele. I riferimenti a T.S. Eliot difatti sono molto presenti all’interno del romanzo, che non solo si svolge nel mese di aprile, ma che è ambientato in un territorio che si fa luogo dell’anima del suo protagonista con il suo essere aspro, solitario e desolato, come dimostra il seguente brano, per esempio:

Il cielo plumbeo rispecchiava perfettamente il suo umore. Grossi nuvoloni gonfi di pioggia si erano addensati su Verezzo, sospinti dal Libeccio; faceva freddo, tanto che fu costretto, quel pomeriggio, ad accendere la stufetta che teneva in negozio per l’inverno. Eppure, nonostante tutto, nell’aria continuava a respirarsi la primavera. In fin dei conti, era aprile. Il mese primaverile per eccellenza. Il mese più crudele, come gli aveva spiegato una volta Giovanni, parlandogli di un certo poeta inglese con cui era fissato.

Chiamandolo Una storia ancora da scrivere, Castelnovo ha puntato sull’elemento di rinascita del suo protagonista, soprattutto attraverso riflessioni metaletterarie. Non mancano, infatti, riferimenti ad autori come Cesare Pavese e Giuseppe Ungaretti e a registi come Woody Allen, ma soprattutto alla scrittura, che mette in testa al protagonista il concetto che la vita è come un’idea di storia: finisce quando lo vogliamo noi, e nostra è la scelta di voler andare avanti e superare gli ostacoli che si frappongono fra noi e il mondo.

Fra Brianza e Liguria

Parlare della storia di Giovanni significa in primo luogo parlare dei luoghi che lo hanno reso quello che è: la Brianza e la Liguria. Entrambe, infatti, hanno lasciato un marchio indelebile nella sua vita, e lui al contempo ha plasmato questi luoghi a sua immagine e somiglianza:

“Siamo fatti dei luoghi in cui siamo stati. Sono parte integrante di quello che siamo. Noi abitiamo i luoghi, è ovvio. Ma anche i luoghi abitano in noi, in un rapporto di interconnessione ed interdipendenza. […] Ogni volta che visitiamo un luogo nuovo, ne assorbiamo alcune sensazioni che poi ci porteremo dietro e ridefiniranno il nostro essere. Non siamo fatti per stare in un posto solo: abbiamo bisogno di muoverci, di viaggiare, di esplorare. È insito nella nostra stessa natura di esseri umani. Capisci cosa voglio dire?”

Per poter cercare di scrivere la propria storia – sia quella del suo libro che quella della sua vita –, Giovanni sceglie la via dello sradicamento. Abbandona Giussano e la «waste land della Pianura Padana» per l’entroterra ligure, un luogo dal cielo quasi sempre grigio, alle volte ventoso, dal terreno roccioso, un piccolo mondo lontano da tutto il resto come Giovanni, che dalla Brianza si vuole allontanare per ridefinirsi e per darsi un nuova possibilità dopo la rottura con Elisabetta.

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È proprio nell’entroterra ligure che Giovanni riceve una sorta di battesimo e di – citando Eliot – morte nell’acqua: nel momento in cui, arrivato a Bajardo, è stato a un passo dal precipitare nel vuoto (non solo metaforicamente). Questo è il momento spartiacque nella storia del protagonista, che da un lato scopre che fare esperienza del vuoto è necessario, e che dall’altro sa che per scrivere la sua storia deve restare attaccato alla vita, che con i suoi momenti di gioia e dolore ci definisce.

Scrivere attaccandosi alla vita

Non per niente all’inizio dell’articolo si è citato Paolo Cognetti, non solo perché è uno dei punti di riferimento di Castelnovo, ma anche perché riecheggia molto in questo romanzo. In questo libro, infatti, si possono sentire echi distanti di La felicità del lupo. Come Fausto Dalmasso, anche Giovanni deve lasciarsi alle spalle il passato, e deve trovare un’idea di felicità dentro di sé. Il modo in cui Giovanni lo fa è attraverso la scrittura:

Il suo racconto aveva preso una piega imprevista. […] Da racconto delle disavventure di un trentenne frustrato, era diventato il diario intimo e psicologico, una sorta di viaggio interiore del protagonista, che altri non era se non l’alter ego di Giovanni stesso, il quale non era soddisfatto di questa svolta del suo romanzo.

Scrivere, dunque, per Giovanni diventa come vivere: per trovare le soluzioni al proprio malessere bisogna guardare dentro di sé e, una volta fatta quest’azione di autocoscienza, prendere in mano le redini del proprio destino. Come Fabietto Schisa in È stata la mano di Dio, Giovanni comprende che non deve disunirsi, non deve lasciare che certi eventi lo travolgano del tutto fino a portarlo alla fine, anzi, deve prenderli, lasciarli accadere addosso e farne ogni volta un punto di partenza. Ogni volta è sempre una fuga, ogni volta è sempre un nuovo inizio: come i lillà di Eliot nascono dalla terra morta, così Giovanni può rinascere da ogni caduta.

La vita com’è secondo Giovanni

Come canta Brunori Sas ne La vita com’è, «avere vent’anni o cento/non cambia poi mica tanto», perché alla fine bisogna riuscire a «resistere allo spavento/di non riuscire a vivere/la vita com’è». Questo lo impara a sue spese anche Giovanni in Una storia ancora da scrivere (acquista). Possiamo pure tornare indietro al nostro passato, ma questi non ci ritroverebbe più, perché nel mentre siamo cambiati, in quanto siamo storie che non restano fisse in un punto, ma vanno avanti, cercando di far nascere lillà da ogni fallimento, cercando di capire come Robert Frost che una volta che qualcosa è accaduto, ci restano solo tre parole: it goes on. Si va sempre avanti, nonostante tutto, ma ancora attaccati alla vita.

Aveva dovuto fare i conti con le conseguenze delle sue azioni. Aveva insomma capito che, per tutti i giorni che gli sarebbero toccati in sorte da vivere, si sarebbe dovuto portare appresso la responsabilità, indiretta o no, della morte di Elisabetta. Era un fatto ineludibile: o vi soccombeva, o lo accettava.

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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