Quello dell’università, si sa, è il periodo della nostra vita a cui teniamo di più, quello che vogliamo non finisca mai. Quando siamo studenti universitari, viviamo l’ebbrezza dell’età adulta senza però affacciarci completamente a essa. È un periodo in cui la nostra vita è sospesa, dove le responsabilità della vita adulta sono procrastinate e si può, dunque, tardare il momento in cui si diventa definitivamente grandi.
Quella della gioventù, dunque, è una magia breve che nella sua fugacità ci regala l’illusione della felicità e della spensieratezza e ci protegge dalle responsabilità della vita adulta. Di questa illusione si occupa Matteo Quaglia, autore triestino già noto per i suoi racconti brevi pubblicati in varie riviste online, nel suo romanzo d’esordio Volevamo magia, edito nottetempo.
La trama di «Volevamo magia»
Ambientato a Trieste, Volevamo magia segue le vicende del narratore, una persona senza nome che, ora dipendente di un’agenzia di assicurazioni, passa in rassegna al suo periodo da studente universitario. La sua carriera di studente è costellata da collaborazioni con riviste studentesche, frequentazioni di cineforum sui film di Paul Thomas Anderson e Nanni Moretti e letture di romanzi di Stephen King, Richard Yates o Michele Mari, quest’ultimo autore di culto di qualsiasi generazione di universitario italiano che si rispetti.
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In tutto questo, l’amico del narratore, tale Bottiglieri, gli presenta una volta Ludovica, una ragazza che a detta del compagno di corso ha appena cambiato università per «cose di sangue e di magia». Quest’ultima, amante di Carrère, Houellebecq e Tarantino, è una ragazza sfuggente e imprendibile che affascina chiunque gli capiti sotto tiro, come il narratore, che ha modo di uscirci qualche volta al di fuori dell’università per poi non rivederla più.
La ragazza, infatti, abbandonerà Trieste alla volta di Parigi a seguito di un incidente in cui Piero, un compagno d’università del narratore, perderà la propria vita. Anni dopo, il narratore incontrerà nella figura enigmatica della regista del neo-horror del Nord-Est Carla Rossini e in alcune presenze perturbanti nei suoi film il momento definitivo in cui rivedere e rivivere per l’ultima volta la magia che gli ha saputo regalare Ludovica negli anni d’oro dell’università.
«Volevamo magia»: tra sogno e cinema
In questo suo esordio al romanzo, Matteo Quaglia ci presenta la gioventù non soltanto come nostalgia, ma anche come ossessione per un sogno che, come direbbe Raymond Carver, è ciò da cui ci risvegliamo. Il sogno della gioventù, infatti, dura soltanto per un effimero momento, ovvero nel momento in cui decidiamo di confrontarci definitivamente con la propria realtà e le responsabilità che ci spettano.
Volevamo magia inscena questo sogno di gioventù anche e soprattutto attraverso il cinema. In questo senso è molto simile, ad esempio, a Fare scene di Domenico Starnone o La legge del sognatore di Daniel Pennac, per i quali il cinema è ciò che dà concretezza alla dimensione onirica, che la rende lo schermo contro il grigiore della quotidianità, l’illusione di cui abbiamo bisogno per dare vita a ciò che nella realtà non è più possibile vivere.
Il cinema a cui fa riferimento Quaglia, però, è inventato: il cinema neo-horror del Nord-Est, a cui l’autore aveva già dedicato il racconto Nascita e morte del neo horror italiano su «Nazione indiana» – racconto in cui riappaiono, fra le altre cose, la figura di Ludovica e quella di Bottiglieri –, e i cui capostipiti sono fantomatici registi come Carlo Garnah, Dennis Williard, Paolo Antonini e Carla Rossini, è un tipo di cinema i cui film, come dice il racconto, «hanno per lo più a oggetto storie di provincia, vite spezzate da un avvenimento straordinario o da una tragedia soprannaturale».
Il neo-horror fra weird e Trieste
Con questa deriva bolañana dove arte e vita si uniscono annullando ogni confine fra verità e finzione, sogno e realtà, il neo horror inventato da Quaglia ma che sembra simile alla realtà ci fa capire quanto illusoria e onirica sia la ricerca del narratore di una gioventù ormai impossibile attraverso un elemento weird che è Ludovica, la cui presenza e al contempo assenza è l’avvenimento straordinario che spezza la vita del narratore rendendolo un uomo in costante ricerca di qualcosa che lo completi.
A differenza che del racconto di «Nazione indiana» dove è solo vagamente citata, in Volevamo magia la ragazza si fa presenza soglia fra realtà e immaginazione nei fotogrammi dei film che il narratore vede diventando simbolo di una gioventù nostalgica che si muove sulla soglia, presente, quindi, ma soltanto negli occhi e nella mente del narratore.
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Non è un caso, inoltre, che questo libro sia ambientato a Trieste, non tanto perché è la città natale di Matteo Quaglia, quanto perché è la città di frontiera per antonomasia, oppure, avendo citato il weird, la città-soglia per eccellenza. In letteratura, pensando a Trieste si pensa soprattutto a Lo stadio di Wimbledon di Daniele Del Giudice, ma anche a Il richiamo di Alma di Stelio Mattioni, per i quali Trieste è la città dell’evanescenza, del sogno, dove i nostri viaggi diventano viaggi dell’anima alla ricerca di un sogno che non riusciamo mai ad afferrare.
L’inizio di una mezza vita infestata dagli spettri
Fin dall’inizio, il narratore di Volevamo magia ci mette davanti alla vera natura di questa storia. La storia della sua vita è non solo una storia d’amore, ma soprattutto una storia di fantasmi, ovvero la storia di una vita scissa fra la realtà e le sue responsabilità e l’inseguimento ossessivo di una nostalgia verso il passato e le sue illusioni:
Molte persone vivono una sola vita ed è pure troppo, altre ne vivono due o più, e non sono sufficienti. Per quel che ne so, il problema non consiste nel vivere diverse vite contemporaneamente (uomini con più famiglie, donne con più amanti, maschere su maschere, i casi sono infiniti); i guai cominciano quando si è costretti a un’esistenza spaccata, una doppia vita che è una mezza vita infestata dagli spettri.
Lo spettro che infesta la vita del narratore è Ludovica, la donna che gli fa credere l’esistenza di una vita perfetta. A questo proposito è importante tenere presente Bottiglieri, il compagno di corso del narratore che non solo gli ha fatto conoscere la ragazza, ma che a differenza del protagonista è l’unico che non si fa abbindolare dall’illusione di gioventù rappresentata dalla ragazza.
Egli racconta al narratore come la ragazza fosse in realtà interessata a fargli male se non addirittura a usarlo come sacrificio umano. Questa confessione, che sembra irreale, in realtà nasconde una verità. Ludovica ha infatti distrutto ogni illusione di sopravvivenza della gioventù del narratore, che appena appurata la scomparsa della ragazza si è sentito subito ferito e senza più una ragione per vivere:
Non gli dissi che se mi ero allontanato dall’ambiente era per troppo amore, perché il troppo amore ti tiene imprigionato nei ricordi, e io sentivo la necessità di evitare con tutto me stesso ricordi di una vita che non si sarebbe mai più presentata così perfetta.
La vita da luogo spensierato a grotta di pipistrelli
La fine della storia con Ludovica e la conseguente scomparsa della giovane fanno piombare la vita del protagonista nel grigiore più assoluto. Il narratore diventa un intellettuale impiegato in un’agenzia di assicurazioni: d’altronde, anche altri scrittori triestini come Italo Svevo e Stelio Mattioni sono passati per ruoli impiegatizi prima di esprimersi definitivamente come intellettuali, e come loro il narratore nutre il continuo desiderio ossessivo di un miracolo che dia una svolta alla propria vita:
Anche io come molti miei ex compagni di università fui risucchiato in una delle società di assicurazioni di Trieste, un impiego che non c’entrava nulla con la letteratura e c’entrava poco con la giurisprudenza; avevo insomma trovato un lavoro onesto per sopravvivere, in attesa che succedesse qualcos’altro; in fondo però sapevo che questo è il modo in cui finiscono per marcire tutti gli stronzi privi di coraggio.
Non è un caso che si è citato Stelio Mattioni, perché Ludovica è molto simile all’Alma di Mattioni. Entrambe sono figure che si muovono fra sogno e realtà e rappresentazione dell’ossessione dei propri protagonisti di inseguire l’illusione di un sogno che gli permetta di continuare a vivere. Per entrambi i protagonisti, inoltre, la realtà è un intrico di labirinti «in cui perdersi nella ricerca di una spiegazione capace di giustificare […] il frutto della sottilissima follia che avvolgeva le menti di tutti quanti».
La magia che il narratore credeva di trovare nei romanzi e nei film della gioventù e che pensava di aver ritrovato in una parvenza di presenza di Ludovica nei film neo horror non è altro che un insieme di fantasmi, proiezione delle proprie nostalgie e di illusioni di qualcosa che non c’è più. Ludovica è imprendibile perché inafferrabile diventa la gioventù quando ci si avvicina al momento di diventare grandi, e l’unico modo per riviverla è, prendendo a spunto la copertina del libro, immaginare di vedere dietro a una logora sedia di plastica una presenza consolatoria, ovvero immaginare di vedere i fantasmi della gioventù come unico modo per sopravvivere alla realtà.
«Volevamo incrinare lo specchio. Volevamo magia»
Che sia un romanzo generazionale o meno, ovvero un romanzo che sa raccontare il disagio di una generazione incapace di diventare adulta, questo non lo sapremo mai con certezza, anzi, si continuerà a discuterne senza sosta. La cosa certa è che Volevamo magia (acquista) rappresenta la gioventù come solo pochi sanno fare, ovvero come una storia d’amore e dunque di fantasmi di una vita che non tornerà più e che possiamo vivere solo nel reame del sogno e della soglia. Amare qualcuno significa amare le tracce che lascia nelle nostre vite e credere che inseguirle ci porterebbe una nuova scintilla di vita che solo l’illusione della gioventù ci sa regalare.
Noi nerd della letteratura fingevamo di vivere dentro uno di quei romanzi tanto cari ai sudamericanisti. La realtà non ci era sufficiente, eravamo alla costante ricerca dell’incanto. Volevamo incrinare lo specchio. Volevamo magia.
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