Lo scorso ottobre, l’Accademia di Svezia ha assegnato il Premio Nobel per la Letteratura alla scrittrice sudcoreana Han Kang con la seguente motivazione: «per la sua intensa prosa poetica che mette a confronto i traumi storici con la fragilità della vita umana». Autrice già nota internazionalmente a seguito della vittoria nel 2016 del Man Booker International Prize con La vegetariana, la sudcoreana si è sempre contraddistinta per una prosa suggestiva, poetica e a tratti surreale che dal silenzio del trauma storico e non fa emergere il dolore dell’esistenza umana e la sua fragilità.
A seguito, quindi, di questo riconoscimento, Adelphi, casa editrice italiana che da anni pubblica l’autrice sudcoreana, dà alle stampe Non dico addio, pubblicato in coreano nel 2021 e arrivato nel resto del mondo a partire dal 2023. Questo che al momento è l’ultimo romanzo pubblicato da Han Kang può essere considerato la summa della sua opera.
La trama di «Non dico addio»
Non dico addio si apre con un sogno in un cimitero in cui dal cielo cade una neve rada sulle cime degli alberi. Quest’ultimi sono neri e dalle cime recise e assomigliano a delle lapidi. L’alta marea del mare arriva a spazzarli, e nel mentre una persona prova a salvare le poche cime rimaste e non ancora sepolte dall’acqua prima che sia troppo tardi.
Da questo sogno si sveglia nell’inverno 2014 a Seoul Gyeong-ha, una scrittrice che ha pubblicato un libro sul massacro di Jeju del 1948, massacro che ha portato alla morte di circa 30.000 civili – ma molti sostengono persino 100.000 – da parte dei militari con l’obiettivo di eliminare simpatizzanti del comunismo. La donna ha lavorato da anni a questo libro, e da anni è sopraffatta da certi incubi che la lasciano con dei conti in sospeso verso ciò su cui si è documentata e di cui ha scritto, in quanto ha riconosciuto come «la sua conclusione iniziale, affrettata e impulsiva, fosse un errore, o frutto di un’eccessiva semplificazione».
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La protagonista riceve un messaggio da In-seon, fotoreporter e autrice di cortometraggi con cui ha collaborato una volta finita l’università, ricoverata in ospedale a Seoul dopo essersi ferita con la sega elettrica per fabbricare mobili a casa sua, anche se si scoprirà che stava lavorando a un progetto legato al sogno di Gyeong-ha. La donna chiede alla protagonista un favore: andare nella sua casa in montagna a Jeju per occuparsi di Ama, il suo pappagallo, per l’inverno. Gyeong-ha, allora, ritorna a Jeju, ma il viaggio che farà sarà un viaggio attraverso a quegli stessi fantasmi che le hanno permesso di scrivere il libro, e che una volta per tutte la porteranno a fare i conti con quanto è stato rimosso del passato.
Un libro sull’amore estremo
Nel parlare di Non dico addio, Han Kang ha usato la seguente espressione: «una candela accesa negli abissi dell’anima umana». Per l’autrice di Gwangju, questo romanzo è letteralmente un viaggio dentro tutto ciò che è stato rimosso nella coscienza di tanti sudcoreani in merito a una vicenda che considera tutt’oggi un tabù. Nella sua nota finale al libro, però, Han Kang ha definito Non dico addio nel seguente modo:
Qualche anno fa, qualcuno mi ha chiesto quale sarebbe stato il tema del mio prossimo libro e ricordo di aver risposto che mi auguravo fosse l’amore. Lo penso ancora. Voglio credere che questo sia un libro sull’amore estremo.
A leggere queste parole, si può ipotizzare come questo libro sull’amore estremo racchiuda tutto quello che abbiamo letto finora di Han Kang: non solo ritroviamo il surreale e la suggestione di La vegetariana e di L’ora di greco, dove l’elemento surreale si fa spazio attraverso il silenzio per esprimere l’inesprimibile, ma ritroviamo anche la carica politica e memoriale di Atti umani, forse il libro tematicamente più simile a Non dico addio. Se, infatti, L’ora di greco è considerato un seguito ideale con un lieto fine di La vegetariana, Non dico addio può essere considerato un seguito ideale di Atti umani.
L’addio come estremo atto umano d’amore
Come in quest’ultimo, infatti, anche qui abbiamo un lato della storia sudcoreana che fa da sfondo alle vicende. Se nel primo caso abbiamo la rivolta studentesca di Gwangju del 1980, qui abbiamo il massacro di Jeju del 1948-1949. Un altro punto in comune che ci fa capire come i due libri siano collegati è il personaggio della scrittrice nell’epilogo di Atti umani, ambientato nel 2013. Anche quest’ultima, che è interessata dai fatti di Gwangju e dalla morte di Dong-ho, è come Gyeong-ha sopraffatta dai sogni che fanno da motore delle vicende che la portano effettivamente a confrontarsi con i fantasmi del passato della Corea del Sud.
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Forse sarà una coincidenza, forse no, ma Atti umani si chiude laddove inizia Non dico addio: in un cimitero. Si chiude, inoltre, con la scrittrice che accende una candela davanti alle tombe dei liceali uccisi, una torcia che segna il passaggio del testimone a Gyeong-ha, come a dire che adesso sta a lei compiere un nuovo atto umano, stavolta un atto estremo d’amore: non solo ritornare al passato, ma abbracciare la dimensione della morte per dare una degna giustizia agli oppressi. La protagonista di questo nuovo romanzo deve cercare di dire addio a qualcosa che la tormenta da anni, e nel farlo deve mostrare un estremo atto d’amore che la porta negli abissi della sua mente.
Una doppia visuale
La situazione in cui si trova Gyeong-ha per confrontarsi di nuovo con il massacro di Jeju è quella di un estremo isolamento in cui ha rinunciato a tutto, dal sonno alla famiglia, per potersi confrontare con qualcosa che è arrivata persino a infestare i propri sogni:
Per anni avevo lavorato contribuendo alle spese familiari e gestendo al contempo la vita domestica. Erano sempre state queste le mie priorità. Per scrivere sacrificavo le ore di sonno, con la segreta speranza che un giorno avrei avuto tempo a volontà da dedicare alla scrittura. Ma di quel desiderio ormai non era rimasto nulla.
«Tra me e il mondo», continua la protagonista, «si è instaurata una desolata linea di confine», una separazione netta fra lei e il mondo, fra la sua vita e la morte. A differenza di Yeong-hye di La vegetariana e della donna senza nome di L’ora di greco, l’isolamento di Gyeong-ha si fa più estremo al punto da rifiutare ogni legame col mondo dei vivi, ma al contempo ne stabilisce uno fondamentale con quello dei fantasmi del passato. In un certo senso, Gyeong-ha riesce attraverso il suo isolamento ad abbracciare una dimensione semi-spettrale utile a intessere un dialogo con la Storia e le sue vittime.
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L’arrivo a Jeju si configura difatti fin da subito spettrale, specie per la presenza della neve, al punto che la protagonista, pensando ai pappagallini di In-Seon, si ritrova in una vita a doppia visuale «come vivere allo stesso tempo nel sogno e nella realtà», dove le appaiono ricordi di persone vive che «come fossero accaduti ieri si srotolano davanti a me». Gyeong-ha si ritrova, dunque, in una dimensione a cavallo fra sogno e realtà simile a un’anticamera della morte che deve attraversare per stabilire un legame veritiero con quanto accaduto sull’isola.
Gyeong-ha e In-seon: due facce della stessa medaglia?
Lo stato di perenne dormiveglia di Gyeong-ha si incrementa sempre più al punto da far sentire la donna in preda a uno stato febbrile che le fa immaginare di essere giunta sull’isola per morire. Il suo stato di dormiveglia è talmente forte che a momenti immagina persino di ritrovarsi davanti a In-seon. La cosa interessante è quanto osserva la protagonista nel momento in cui si imbatte all’improvviso nell’amica:
Incrociando il suo sguardo mentre staccava le labbra dalla tazza, ho riflettuto: il tè si sta spandendo anche nel suo stomaco? Se quello davanti a me è lo spirito di In-seon venuto a trovarmi, significa che io sono viva; ma se è lei a essere viva, lo spirito sono io. Possibile che questo calore si diffonda contemporaneamente nel corpo di entrambe?
Più avanti, un’altra frase interessante esce dalla bocca di In-seon: «vivendo a lungo da soli, si finisce per parlare a se stessi, no?». Ad un certo punto del romanzo, parti in corsivo che raccontano della tragedia di Jeju si fondono a quelle scritte in stampato senza distinguere chi dice cosa, e in un certo senso sembra che le due donne si uniscano, quasi fossero i gemelli Klaus e Lukas di Trilogia della città di K. di Agota Kristof. Anche se su questo non avremo mai la certezza fino alla fine, sembra che In-seon sia la proiezione di Gyeong-ha e di tutte le sue paure e preoccupazioni nel suo confrontarsi con le vicende di Jeju.
Separarsi per non dirsi addio
Lo stato di dormiveglia della protagonista è talmente forte che, invece di separarsi da In-seon e dai suoi ricordi e da quelli della madre affetta da Alzheimer, a loro invece si unisce arrivando persino a immedesimarsi con quanto hanno vissuto. Un esempio di ciò lo si ha con il ricordo della ricomparsa di Kang Jeong-hun, fratello della donna anziana portato al carcere di Daegu e dato per scomparso:
Può darsi che a partire da quel momento sia avvenuta una scissione in lei. Da quella notte in cui suo fratello aveva iniziato a esistere contemporaneamente in due dimensioni diverse.
Non è un caso che l’ultima parte del libro sia intitolata Fiamme. Il viaggio di Gyeong-ha si conclude con una consapevolezza finale che come le fiamme fa luce nella sua coscienza. Fra lei, In-seon e sua madre infatti non c’è nessuna differenza: sono tutte facce della stessa medaglia, vive e morte entrambe in una dimensione che ancora non riesce a fare i conti con il passato:
C’è davvero qualcun altro, qui con me?, mi sono chiesta. Simile a una luce che esiste contemporaneamente in due luoghi diversi e, appena cerchi di guardarla bene, si fissa in un unico punto. Sei tu?, mi sono chiesta subito dopo. Sei tu all’estremità di questo filo tremolante? Come se guardassi dentro l’acquario buio, nel tuo letto d’ospedale, mentre cerchi di tornare in vita? No, forse è il contrario. Forse sono io, già morta o a un passo dalla morte, a tenere lo sguardo ostinatamente fisso su questo luogo. Dal letto buio di questo torrente asciutto, più a valle.
Gyeong-ha e In-seon continuano fino alla fine a giocare con la morte e a mantenere accesa la fiamma della candela che dovrebbe tenere in vita una delle due o entrambe: come scrittrice, Gyeong-ha deve continuare a vivere per dare voce ai fantasmi e mantenere viva la loro memoria; In-seon, invece, resta colei che deve far sì che i fantasmi continuino a essere visti. È questo, dunque, l’atto estremo d’amore a cui Han Kang faceva riferimento: avere il coraggio di scendere a patti con la morte e il passato e dialogare con i fantasmi per mantenere la memoria di ciò che è destinato a scomparire.
Una desolata linea di confine fra i vivi e i morti
Ancora una volta, Han Kang riesce a dimostrarsi capace, come dice l’Accademia di Svezia, di mettere a confronto i traumi della storia con la fragilità dell’essere umano attraverso una prosa estremamente poetica e suggestiva. Non dico addio (acquista) porta all’estremo quanto scritto finora dall’autrice di Gwangju: Gyeong-ha rinuncia al corpo per farsi puro spirito per ricordare a se stessa e agli altri come per riportare in vita ciò che non c’è più dobbiamo rinunciare a tutto. Ricordare, infatti, è una sorta di amore costituito dalla discesa negli inferi che ci chiede in continuazione di confrontarci con fantasmi che non ci lasceranno mai e che chiedono di essere amati come atto di giustizia.
“I sogni sono terrificanti” le rispondo abbassando la voce. “Anzi no, umilianti. Perché ti svelano cose su di te stessa delle quali non avevi alcuna consapevolezza”. Che strana notte, penso. Sto confessando qualcosa che non ho mai raccontato ad anima viva. “Come quegli incubi che, notte dopo notte, hanno saccheggiato la tomba della mia vita. Dicendomi che accanto non mi è rimasta una sola persona vivente”.
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