In tempi di crisi, sia politica che ambientale, la figura del pellegrino sembra essere ancora attuale. Il pellegrino non è soltanto colui che si muove di posto in posto alla ricerca di luoghi di preghiera dove manifestare la propria devozione, ma in senso figurato è anche colui che in tempi di crisi cerca nuovi riferimenti che lo possano guidare verso la salvezza.
Un pellegrino è anche l’io poetico di Kaveh Akbar in Il miracolo, raccolta poetica originariamente del 2021 conosciuta in lingua originale come Pilgrim Bell (la campana del pellegrino, appunto) che Il Saggiatore ha pubblicato in italiano lo scorso febbraio. Dopo il successo di Martire!, l’autore iraniano-statunitense torna nelle librerie italiane con delle poesie che ci raccontano cosa significa essere umano in tempi di crisi esistenziale e non.
Le poesie di «Il miracolo»
«Ogni testo che non è un testo sacro è un’apostasia. Quindi è un testo sacro». Su due pagine Kaveh Akbar spalma questi due versi di Il miracolo, dove l’io lirico inizia con una dichiarazione d’intenti molto forte, ovvero mettere in discussione la propria fede religiosa a causa di una crisi personale più profonda. L’io lirico, che coincide con l’autore – e su questo si tornerà in un secondo momento – si fa pellegrino fra due mondi, quello iraniano d’origine e quello statunitense di approdo.
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Oltre a un confronto fra due culture diverse, ciò che fomenta ancora di più la crisi dell’io è anche la recente pandemia da Covid-19, che lo porta a cambiare prospettiva e a mettere in discussione non solo la sua fede, ma anche la sua lingua. Le poesie di Il miracolo, dunque, costituiscono un diario intimo in versi di un poeta alla ricerca di uno spiraglio di luce, di qualcosa che lo tenga ancora in vita, ma anche di un modo di connettersi a un destino superiore attraverso una lingua che faccia da ponte alle sue esperienze di dolore passate e presenti.
Il miracolo della campana del pellegrino
Come già annunciato, dall’edizione italiana a quella americana vi è un significativo cambio di titolo. Quello americano Pilgrim Bell pone l’interpretazione della raccolta di Akbar a un semplice livello devozionale e religioso, comunque presente nella raccolta, in quanto essa è scandita da componimenti che hanno per titolo La campana del pellegrino e che raccontano uno dei fulcri della raccolta, ovvero la crisi esistenziale dell’io, che suona prepotentemente nella sua coscienza in cerca di soluzione attraverso un serrato confronto con un passato di nostalgia e un presente di smarrimento e violenza.
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Il titolo italiano Il miracolo, invece, rende l’interpretazione più ampia rispetto alla semplice crisi esistenziale e devozionale. Tenendo a mente uno degli eserghi citati da Akbar, vale a dire quello di Anne Carson che recita che «un pellegrino è colui che ha qualcosa in mente», l’io lirico non è soltanto un pellegrino che ascolta la campana della sua coscienza, ma è anche qualcuno che, citando il poeta persiano Rumi, «viaggia da se stesso in se stesso» cercando in maniera attiva una possibilità di salvezza, ovvero un miracolo, un segno di luce che gli faccia ricordare che è sopravvissuto nonostante tutto.
Il miracolo prima del martire
La raccolta di Kaveh Akbar è strettamente collegata al suo primo romanzo Martire!. Sia l’io lirico di Akbar che Cyrus, il protagonista del romanzo d’esordio dell’autore iraniano-statunitense, sono persone che cercano attraverso l’arte una propria salvezza dal male che hanno vissuto. Leggendo le parole di Cyrus, infatti, si può riscontrare il senso della raccolta di Akbar: «io ho sacrificato la mia intera esistenza; l’ho venduta all’abisso. E l’abisso mi ha dato l’arte».
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Queste parole di Cyrus si riscontrano nella poesia Nella lingua di Mammona, poesia originale perché scritta da destra verso sinistra come il farsi e l’arabo: «La sua illusione più inebriante – che il male sia solubile nell’arte». L’io lirico, dunque, anticipa di quasi tre anni quello che avrebbe fatto Cyrus con il suo progetto sui martiri: mettersi alla ricerca di un’illusione che lo aiuti a trasformare il male – l’abisso per Cyrus – in pura arte, in un linguaggio che gli permette di raggiungere un miracolo di salvezza.
L’abisso dell’io e l’abisso di Akbar
Prima di parlare di come l’io lirico – e con lui Akbar – possa raggiungere il miracolo attraverso l’arte, sarebbe meglio contestualizzare l’abisso a cui abbiamo appena fatto riferimento. Riferimenti in merito si trovano nella prosa poetica che dà il titolo alla raccolta, cioè Il miracolo, dove alcuni versi recitano quanto segue:
Finché Gabriele non ebbe spremuto fuori ciò che in lui era vuoto il Profeta non poté essere riempito di miracolo. Immagina il vuoto in te, le vaste cavità che hai impiegato una vita a tentare di riempire – con padri, madri, amanti, lingue, droghe, soldi, arte, lode – e immaginale perdute. Cosa rimane? Cos’altro non sei, che è ciò che ti fa – una casa utile non per le assi i soffitti o le mura, ma per lo spazio vuoto nel mezzo.
L’io lirico ha fatto le stesse esperienze di Akbar: l’allontanamento dall’Iran, la morte del padre da adolescente e della madre da bambino, ma anche l’alcolismo. L’abisso qui è talmente profondo che persino Gabriele, il messaggero di Dio e di Allah, non sa come colmarlo e abbandona l’io al suo destino, al punto da definirlo «troppo andato per salvare».
L’abbandono dell’arcangelo Gabriele trova conferma in Il valore della paura, dove l’io lirico dice «confusa, l’anima è confusa/l’anima è confusa per tutte le sue bugie/sull’anima», ma anche in Il mio impero, poesia dove i profeti che hanno alimentato l’illusione della religione e del benessere in realtà «vennero per prendere parte alla sofferenza/come un parco divertimenti, che fa del nostro soffrire/la principale attrazione». Fra America e Iran per l’io lirico non c’è differenza, in quanto le loro illusioni di benessere e di fede non fanno altro che legittimare la violenza e l’emarginazione, e dunque l’io sperimenta una crisi dove le promesse fatte attraverso la fede e il sogno americano vengono meno.
Creazione dell’illusione della sopravvivenza
Se, allora, l’illusione della fede e del benessere vengono meno, all’io spetta soltanto un’ultima speranza, ovvero quella dell’esistenza di un’idea di sopravvivenza. Questa è la stessa idea che cerca in qualche modo il già citato Cyrus: come quest’ultimo, anche questo io lirico cerca attraverso l’arte di creare qualcosa che sopravviva allo scorrere del tempo e alla violenza della Storia, che spazza via qualsiasi cosa, anche quelle illusioni che ci fanno restare in vita.
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Paradossalmente, la creazione di un’idea di salvezza passa attraverso la creazione di una fede, quella per il corpo: «la vera fede», dice l’io lirico, «passa prima attraverso il corpo come una freccia», ma allo stesso tempo, come dice in Contro la memoria, «per parlare tutta la lingua cominciò con un singolo suono O». L’illusione della sopravvivenza passa dalle cicatrici e dalle grida di dolore che il proprio corpo hanno accumulato, dal fatto che il mondo non è l’Eden caduto dal cielo, ma è composto da «ciò che accumula – la bocca piena di carne/la terra piena di polvere».
Dall’accettazione di questa idea, dunque, arriva lo scopo dell’arte: quello di essere il posto dove «ciò a cui sopravviviamo sopravvive». È la fede nell’arte a sostituire quella nei falsi idoli, poiché l’arte è ciò che testimonia la sofferenza dei singoli, e raccogliendone le testimonianze le fissa su carta per far sì che possano continuare a vivere anche dopo la nostra fine. L’arte è ciò che attraverso il nostro dolore riempie il vuoto lasciato dalla fede, è ciò che fa da bussola al nostro agire umano. È questo, quindi, il miracolo: la creazione di qualcosa che ci permetta di sopravvivere al male universale.
Il miracolo di sopravvivere al vuoto
In tempi di crisi dove nemmeno gli idoli religiosi e non sembrano garantirci la salvezza, l’io lirico di Kaveh Akbar di Il miracolo (acquista) suona prepotentemente come una campana del pellegrino. L’arte è ciò che riesce a trasformare l’abisso in vita, ciò che con le sue parole e le sue immagini riempie il vuoto di una crisi esistenziale e devozionale da cui non sembra esserci via d’uscita. L’arte per Kaveh Akbar, per il suo io lirico e per Cyrus in Martire! è la stella polare che guida il pellegrino nelle sue notti più buie, la campana che ascolta per comprendere come il primo dio in cui credere siamo noi stessi, in quanto siamo testimoni di come sia possibile sopravvivere alle false illusioni, alla paura dell’abisso e al vuoto del tempo.
Domando.
Di essere perdonato.
Domando.
Un’anima più forte.
Chiunque abbia mai incontrato.
Era abbastanza piccolo.
Da starmi.
In un occhio.
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