Scrisse una volta Ennio Flaiano: «l’infanzia è l’unico luogo che non riusciamo ad abbandonare». Questa frase è vera soprattutto quando ci si avvicina non tanto all’età adulta, quanto alla vecchiaia. In quest’ultima fase della nostra vita, cominciamo a ritornare indietro con la memoria ai ricordi di quando eravamo bambini, quasi a non voler rinunciare definitivamente all’idea di poter abbandonare per sempre la propria vita. Un po’ come Benjamin Button: nel momento in cui invecchiamo vogliamo credere di essere tornati bambini, perché questa idea continua a farci vivere.
A questa idea pare si sia ispirato Graziano Gala, uno di quegli autori che con Sangue di Giuda e il racconto breve Ciabatteria Maffei non solo ha dedicato la sua letteratura a una sorta di telemachia, ovvero ricerca di un padre sia fisico che metafisico – qui inteso come ricerca di soluzione alla miseria umana –, ma anche agli ultimi e agli emarginati, come in Popoff, suo secondo romanzo uscito recentemente per i tipi di minimum fax.
La trama di «Popoff»
«C’è un bimbo ed un vecchio: la porta è nel mezzo». Così inizia Popoff, un racconto dal sapore fiabesco e folklorico. Cimino, uno smemorato anziano del paese che vive ancora nel ricordo della moglie Cietta – forse viva, forse no, ma sicuramente molto silenziosa –, si ritrova davanti casa sua un bambino tutto imbacuccato che cerca suo padre, o meglio, suo «pa-ttre». Il bambino, che più avanti sarà ribattezzato Popoff, stringe presto amicizia con l’anziano, che lo aiuterà a cercare i suoi genitori.
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In questa telemachia stralunata e “spasulata” – termine tanto caro a Remo Rapino, fra le stelle polari letterarie di Graziano Gala –, Popoff imparerà a conoscere gli abitanti di una comunità fatta di preti che parlano in latino senza dare risposte concrete ai problemi altrui, panettieri, sedicenti professori e “dir-ettori”: tutti che si inventano menzogne e rancori per andare avanti, tutti che si aggrappano al passato come unica ancora di salvezza possibile e in cerca di qualcuno o di qualcosa che li redima e li consoli.
Popoff, Giuda e Mino: padri che accolgono figli, padri che ricordano chi sono stati
Popoff sembra iniziare laddove era finito Sangue di Giuda. Se in quest’ultimo Giuda è un Ulisse – chi ha letto il romanzo avrà sicuramente colto il riferimento, specie se ricorda il nome Ulisse Prinzivalli –, che cerca amore ed empatia con un padre ridotto a un fantasma nascosto nell’armadio, questa volta Cimino e tutti gli altri abitanti di questo paese senza nome devono fare da padre a Popoff, accoglierlo e accogliere la luce che lui sta cercando ma che, in realtà, rappresenta.
Come già annunciato, Graziano Gala è parte di quella generazione di scrittori giovani e non – fra i quali si possono annoverare Nadia Terranova con Addio fantasmi, Piero Balzoni con Vita degli anfibi e Noemi De Lisi con Vene. Il talento dei sommersi – per i quali la ricerca del padre – la telemachia, appunto – diventa in realtà la ricerca di un mezzo per colmare il vuoto ideologico, per dare un senso alle nostre vite frammentate e, soprattutto, per trovare una ragione di vita.
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A proposito dell’ultimo punto, Gala sembra riprendere un aspetto fondamentale del racconto breve Ciabatteria Maffei. A differenza del personaggio di Mino, che si aggrappa al ricordo del padre, i protagonisti devono difatti aggrapparsi a Popoff – personaggio che alla fine non solo cerca un padre, ma fa anche da padre – per non dimenticare il proprio passato e la propria umanità, ragione di vita che resta ai protagonisti di questo romanzo. Per fare ciò, se Mino usava un linguaggio marinaresco per rendere leggendario e fanciullesco il ricordo del padre – dopotutto, le storie di pirati e marinai sono simbolo dell’infanzia –, qui Gala usa un linguaggio dal ritmo fiabesco, quasi fosse una filastrocca in prosa, un modo per rendere leggenda e fissare nel ricordo un’infanzia e un’innocenza che rischiano di scomparire.
L’umanità spasulata di «Popoff»
Come è stato ribadito varie volte, Graziano Gala nutre un profondo debito nei confronti di autori come Fabio Stassi e Remo Rapino, padri in un certo senso di una letteratura “spasulata” (per citare Rapino) che mette in scena un teatro umano fatto di miseria, i cui protagonisti ricevono attraverso la parola scritta una consolazione. Questa umanità è soprattutto in cerca di un senso nella propria vita, senso che sembra aver trovato in Popoff:
Ora è complice a un fuggiasco, ausilio a un ricercato: pure cento cose ancora, ma al vecchio poco importa. Gli importa invece molto la ricerca di quel pa-ttre, e che per una volta si è sentito di servire: è dai tempi della Cietta che lui aveva poco scopo, e per scopo qui intendiamo un obiettivo nella vita.
Con Popoff, infatti, il paese sembra aver creato «un principio di presepe», ovvero sembra aver dato vita a un teatro che serve a dare senso alle proprie vite, a non farle morire dall’incedere del tempo. Emblematico è, ad esempio, il fatto di creare e inventarsi personaggi poi fatti morire e scomparire come Cecco Matre o Ilda Farsi, personaggi che nel bene e nel male lasciano una traccia di vita che lascia impresso il ricordo di «chi ha già patito il dolore» e «non vorrebbe il dolore altrui». L’umanità spasulata di Popoff è infatti un’umanità che cerca di aggrapparsi a ogni cosa pur di non rivivere il dolore della perdita, che sia passata o futura.
«Nu supermercato cu ddintra li sciemi d’u paese»
Attraverso un narratore onnisciente di terza persona, Gala a poco a poco ci mette in guardia sul carattere effimero di ciò che si sta leggendo. È come se volesse avvisarci del destino effimero della “Liu-cce” che Popoff e gli altri cercano di afferrare:
C’è un momento nella storia che non puoi tornare indietro, che le cose vanno sole e puoi guardarle solo andare. Quel momento qui è arrivato ed è molta la paura: se ora fossimo vicini – io che scrivo, tu che leggi – proporrei il fermarci un poco, giusto il tempo di un abbraccio.
Col procedere della storia, ci si rende conto di due cose: da un lato ci si ritrova con un paese dove «chi rimane sono fantasmi», e dall’altro con uno scrittore che dà vita a questi fantasmi inscenando un teatro delle marionette che fa rivivere ciò che rischia di scomparire giocando con i ricordi di chi lo vive. Non è un caso che si è citato Stassi, poiché Gala gli rende omaggio citando esplicitamente in uno dei tanti eserghi Mastro Geppetto, il quale è, alla fine, un racconto su quanto sia importante la memoria per una persona anziana come Geppetto, unico spiraglio di luce per non farlo morire.
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Ed è per questo, allora, che esiste questo «supermercato cu ddintra li sciemi d’u paese» e che esiste anche Popoff che «fa arcobaleni, coriandola le stanze» e che «la bocca tiene fissa in quella goccia di sorriso»: perché quest’ultimi sono la “Liu-cce”, sono il passato che non vogliamo far scappare anche se sappiamo che di tutto non restano altro che fantasmi, sono la flebile luce della memoria che ci tiene in vita, l’innocenza e la bellezza della nostalgia che vogliamo ancora vivere prima che tutto scompaia.
«Popoff»: una “Liu-cce” che tiene in vita
Popoff (acquista) racconta la disperata solitudine di chi a poco a poco è costretto a salutare tutto ciò a cui era affezionato. Tutti i personaggi di questo teatro umano fanno da padri a Popoff, ma in realtà sono tutti figli in cerca di padre, dove per padre si intende non il fantasma del padre di Giuda che con il ricordo della sua violenza lo rende ancora più solo, ma qualcosa di più simile a quello di Mino, ovvero ciò che, nel bene e nel male, genera la vita. Ciò che ci permette di esistere è la memoria di quello che ci ha reso felici, di quello che ci ha fatto male, ma che comunque fa sì che oltre ai fantasmi resti anche una traccia di ciò che abbiamo lasciato, un’idea che ci consola di fronte alla paura della scomparsa del passato.
Il vecchio semiperso mette mano sulla fronte: la cosa della luce la capisce a intermittenza. Il bambino certo soffre, ha dolore per qualcosa che un momento prima c’era e che è scomparsa dopo. Cimino questi fatti li conosce molto bene: se il soffrire l’hai patito non ti servono le scuole. ‘E ccose – dice quello – se nun le tratti bbene – e parla più a se stesso – vannu via. E dopo jè tutta nustalgia.
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